Egregio Avvocato
Pubblicato il 9 dic. 2021 · tempo di lettura 6 minuti
Con la Legge n. 80 del 1898 fu introdotta, per la prima volta, l’assicurazione sociale per gli infortuni sul lavoro, cui fece seguito l’assicurazione per le malattie professionali e il Testo Unico delle disposizioni in materia di assicurazione obbligatoria.
Questa complessa disciplina è intervenuta a regolare il c.d. rischio professionale, vale a dire il rischio correlato all’attività lavorativa. Con l’avvento dell’assicurazione sociale si è, sostanzialmente, trasferita la titolarità di questo rischio – prevista dall’art. 2087 c.c. in capo al datore di lavoro – da quest’ultimo all’istituto previdenziale che, in caso di lesioni incorse al lavoratore, lo indennizza.
Nel corso del tempo, tuttavia, la tutela al lavoratore si è sempre più estesa, non limitandosi solamente agli infortuni occorsi sul luogo di lavoro, ma prendendo in esame anche i c.d. infortuni in itinere.
1 - L’infortunio sul lavoro: cosa s’intende per infortunio in itinere?
L’infortunio sul lavoro può essere definito come il danneggiamento all’integrità psico – fisica di un individuo che si verifica a causa di un fattore esterno durante il normale svolgimento dell’attività lavorativa.
Pertanto, almeno inizialmente, la tutela previdenziale veniva riconosciuta solamente a coloro i quali, considerate mansioni svolte e posizioni ricoperte, fossero esposti a rischio durante il proprio orario lavorativo.
Con le modifiche intervenute al Testo Unico delle disposizioni per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, tuttavia, ha assunto rilevanza anche il c.d. infortunio in itinere.
Ma cosa s’intende per infortunio in itinere?
In base alla lettera dell’art. 12 del Decreto Legislativo n. 38/2000 è possibile definirlo una tipologia di infortunio che si verifica lungo il normale percorso che il lavoratore compie spostandosi: a) dal luogo di abitazione a quello di lavoro e viceversa; b) da un primo luogo di lavoro ad un altro laddove il lavoratore sia impegnato in differenti rapporti lavorativi; oppure c) dal luogo di lavoro a quello di consumazione abituale dei pasti e viceversa.
2 - Il “normale percorso” e le sue variazioni. Le condizioni di operatività della tutela
Si parla, quindi, di “normale percorso” che il lavoratore compie. Ma cosa si deve intendere con questa “formula”?
Sul punto la dottrina ha interpretato la norma considerando “normale percorso” quello più breve e diretto, vale a dire quello che normalmente o, quanto meno, abitualmente il lavoratore compie ma, anche, quello non abituale ma che sia giustificato da concrete situazioni che impongano di percorrerlo in una data occasione.
Ne consegue che, almeno teoricamente, tutte le eventuali variazioni effettuate nei tragitti abituali, se non sono la diretta conseguenza di necessità improrogabili, non farebbero rientrare un eventuale infortunio tra quelle da annoverare come avvenuto in itinere.
Le variazioni per far permanere la tutela al lavoratore in caso di infortunio devono essere effettuate per adempiere a un ordine impartito dal datore di lavoro oppure scaturire da cause di forza maggiore o esigenze improrogabili o per adempiere a obblighi penalmente rilevanti.
Le condizioni per l’operatività della tutela sono essenzialmente tre. Difatti, affinché operi la tutela assicurativa, lo spostamento, oltre che esser compiuto lungo il “normale percorso” deve avere fini lavorativi e deve sussistere un nesso causale tra il tragitto e l’attività lavorativa.
3 - Infortunio in itinere e le differenti modalità di percorrenza
Se è vero che le condizioni per l’operatività della tutela sono tre, è altrettanto vero che, ai fini dell’indennizzabilità dell’infortunio in itinere, si debba prendere in considerazione anche la modalità di spostamento impiegata dal lavoratore per coprire il normale percorso.
Innanzitutto, basandosi sui chiarimenti forniti dalla stessa INAIL in vari circolari si può tranquillamente affermare che, in presenza delle tre condizioni già citate, laddove il tragitto sia percorso con le “ordinarie modalità” di spostamento, opera senza dubbio la copertura assicurativa.
In altri termini, saranno indennizzati tutti quegli infortuni avvenuti spostandosi a piedi o a bordo di mezzi pubblici.
Sembrerebbe, quindi, che non ci sia invece spazio per indennizzare gli infortuni occorsi a bordo di mezzi propri.
Tuttavia, la normativa stabilisce che l’assicurazione infortuni sul lavoro opera anche nel caso si utilizzi un mezzo di trasporto privato, purché necessitato. Stando all’interpretazione giurisprudenziale, il requisito della necessità va valutato attraverso differenti fattori e, in via ragionevole, si considera giustificato l’uso del mezzo privato quando: a) il mezzo è fornito dal datore di lavoro per esigenze lavorative, b) non esistono mezzi pubblici di trasporto che collegano il luogo di abitazione con il luogo di lavoro o non vi è coincidenza di orari, c) il risparmio di tempo, utilizzando il mezzo privato, sia pari o superiore a un’ora per tragitto.
Cosa accade, però, se il mezzo utilizzato non è a motore? Considerata la sempre maggior diffusione nell’utilizzo della bicicletta, l’INAIL aveva inizialmente interpretato estensivamente l’art. 12 del Decreto Legislativo 38/2000, stabilendo che l’infortunio occorso a bordo di un velocipede, percorrendo una strada aperta al traffico di veicoli a motore, dovesse essere indennizzato solo in presenza delle condizioni necessarie per rendere necessitato l’uso della bicicletta, mentre si potesse prescindere dalle condizioni di necessità qualora l’infortunio si fosse verificato in un tratto di percorso protetto come ad esempio una pista ciclabile.
Sul punto sono intervenuti anche il legislatore e la giurisprudenza, espressamente stabilendo che l’utilizzo della bicicletta come mezzo privato per il raggiungimento del posto di lavoro debba sempre considerarsi “necessitato”.
4 - Gli adempimenti da compiere
Una volta occorso il sinistro, il lavoratore ha l’obbligo per legge di avvisare o far avvisare il proprio datore di lavoro. Comunicazione che deve essere immediata poiché non ottemperando a tale obbligo si perde il diritto alle prestazioni INAIL per i giorni antecedenti a quello in cui il datore di lavoro ha avuto notizia dell’infortunio.
Una volta appresa la notizia, il datore di lavoro deve inviare, a seconda dei casi, la comunicazione o la denuncia dell’infortunio stesso all’INAIL.
In particolare, la comunicazione di infortunio va presentata nell’ipotesi di prognosi e assenza del lavoratore per almeno un giorno successivo a quello dell’evento oppure per assenza prolungata sino a tre giorni. Essa va presentata telematicamente entro 48 ore da quando è stato inviato il certificato medico ed è meramente fini informativi.
La denuncia di infortunio, invece, va presentata nel caso in cui vi sia una prognosi che vada oltre i 3 giorni successivi all’evento. In queste ipotesi, il datore di lavoro dovrà inoltrare la denuncia all’INAIL entro 48 ore dal momento della conoscenza dell’infortunio o entro 24 ore per i casi più gravi.
5 - I limiti alla tutela
In linea teorica, in caso di infortunio in itinere accaduto per colpa del lavoratore, gli aspetti soggettivi della condotta – negligenza, imprudenza, imperizia, violazione di norme – non assumono rilevanza ai fini della indennizzabilità, poiché si ritiene che la colpa del lavoratore non interrompa il nesso causale tra il rischio lavorativo e l’infortunio, a meno che non si configurino comportamenti talmente eccessivi da rientrare nel c.d. rischio elettivo.
Il rischio elettivo, secondo la Corte di Cassazione, è definibile come una deviazione arbitraria dalle normali modalità lavorative per finalità personali, che comporta rischi diversi da quelli inerenti alle normali modalità di esecuzione della prestazione (Cass. n. 19081/2013).
Ne deriva che la tutela assicurativa dell’infortunio in itinere non copre quegli infortuni avvenuti a causa: di deviazioni o soste effettuate per esigenze personali, di deviazioni effettuate per scelta del lavoratore, dell’abuso di sostanze alcoliche, stupefacenti, psicotrope, della violazione del Codice della Strada.
Editor: avv. Marco Mezzi
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Egregio Avvocato
27 gen. 2022 • tempo di lettura 1 minuti
La parità in materia di lavoro e l’abolizione di ogni forma di discriminazione è stata prevista dalla Costituzione espressamente in relazione alla donna ed al minore, considerati da sempre soggetti “deboli” del rapporto di lavoro.Infatti, per eliminare ogni disparità di trattamento tra uomini e donne, venne introdotta nel nostro ordinamento la L. n. 903/1977 relativa alla parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro.La normiva predetta oltre ad aver previsto il divieto di qualsiasi discriminazione fondata sul sesso con riferimento all’accesso al lavoro, ha introdotto altre regole tra cui: la parità di retribuzione; parità di progressione della carriera e la parità di diritti.Nonostante l’emanazione della predetta legge, la parità anche se formalmente affermata non veniva attuata in concreto. Pertanto, al fine di rimuovere gli ostacoli che, di fatto, impedivano la realizzazione di una sostanziale ed effettiva parità, è stata emanata la L. n. 125/1991.Le citate disposizioni, poi, sono confluite nel “Codice delle pari opportunità tra uomo e donna” che prevede misure volte ad eliminare ogni discriminazione basata sul sesso. In particolare, l’art. 27 del Codice vieta qualsiasi discriminazione inerenti l’accesso al lavoro, prodotte in qualsiasi forma.Con l’adesione all’Unione europea è stato inoltre recepito nel nostro ordinamento il principio di libera circolazione dei lavoratori, con conseguente abolizione di ogni discriminazione fondata sulla nazionalità tra i lavoratori degli Stati membri sia per quanto riguarda l’impiego, la retribuzione e le altre condizioni di lavoro.
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Egregio Avvocato
10 gen. 2022 • tempo di lettura 5 minuti
La Costituzione italiana prevede all’articolo 38, comma III che “gli inabili ed i minorati hanno diritto all’educazione e all’avviamento professionale”. Questa disposizione, analizzata insieme a quanto previsto dall’articolo 2 della stessa Carta fondamentale, ha spinto il legislatore a dare concreta attuazione a quell’obbligo etico e sociale assunto dallo Stato nei confronti di quelle che, col tempo, sono state definite “categorie protette”.Cosa prevede la Legge n. 68/1999?Quali sono i soggetti beneficiari?Come avviene l’accertamento dell’invalidità?Gli obblighi per i datori di lavoro e le sanzioni, anche alla luce delle recenti novità1 - Cosa prevede la Legge n. 68/1999?Con la Legge n. 482/1968 fu introdotto il c.d. collocamento obbligatorio, con il quale i datori di lavoro furono, per la prima volta, obbligati ad assumere un certo numero di persone che, a causa delle particolari condizioni psico – fisiche nelle quali si trovavano, difficilmente avrebbero trovato inserimento nel mondo del lavoro.Tuttavia, nel 1999 si optò a una nuova disciplina che puntasse, effettivamente, all’inclusione delle persone diversamente abili. Infatti, con la Legge n. 68/1999 si riforma il collocamento obbligatorio, introducendo il c.d. collocamento mirato, ossia quella serie di strumenti tecnici e di supporto, che permettono di valutare adeguatamente le persone in base alle loro capacità lavorative, così da inserire nel posto adatto, attraverso forme di sostegno, analisi del lavoro, soluzione dei problemi connessi agli ambienti lavorativi.Ma, nel dettaglio, cosa prevede la Legge n. 68/1999?La legge in esame prevede che il legislatore con condizioni psico – fisiche particolari sia collocato nell’occupazione più idonea e, di conseguenza, più proficua sia per sé sia per chi lo assume. Difatti, la finalità di questo intervento legislativo è la promozione e l’integrazione lavorativa delle persone disabili nel mondo del lavoro attraverso servizi di sostegno e di collocamento.2 - Quali sono i soggetti beneficiari?In concreto, chi sono i soggetti destinatari della tutela prevista dalla Legge in esame?L’articolo 1 della Legge n. 68/1999 prevede che beneficiari sono: a) le persone in età lavorativa affette da minorazioni fisiche, psichiche o sensoriali ed i portatori di handicap intellettivo che presentino una riduzione della capacità lavorativa superiore al 45%; b) le persone invalide del lavoro con un grado di invalidità superiore al 33% accertate dall’INAIL; c) le persone non vedenti; d) le persone sordomute; e) le persone invalide di guerra, invalide civili di guerra e invalide per un servizio con menomazioni annesse alle tabelle di cui al testo unico in materia di pensioni di guerra.3 - Come avviene l’accertamento dell’invalidità? Tutti coloro i quali presentino i requisiti previsti dalla legge in esame possono accedere al già citato collocamento mirato, iscrivendosi negli appositi elenchi provinciali tenuti dai centri per l’impiego. Ovviamente, ai fini dell’iscrizione è necessario possedere una certificazione attestante l’esistenza, in capo al soggetto, del requisito sanitario che sancisce “l’appartenenza” a una delle categorie protette menzionate dalla Legge n. 68/1999.Ogni menomazione, infatti, va accertata tramite la detta certificazione che viene rilasciata, a seconda dei casi, dall’INPS o dall’INAIL, anche se nella maggior parte dei casi, i verbali sono rilasciati da apposite commissioni sanitarie delle singole ASL territorialmente competenti.Nello specifico, in primis, il medico curante deve rilasciare il c.d. certificato introduttivo che attesta l’infermità riscontrata, per poi essere inviato, in via telematica, all’INPS. Successivamente, l’interessato dovrà procedere alla richiesta di visita e, nei trenta giorni successivi, sarà convocato per effettuare la visita in questione, la quale si effettua presso l’ASL dinanzi a una commissione di medici ASL e un medico INPS.Una volta effettuata la visita, la commissione sanitaria dovrà predisporre un verbale, attestando la percentuale di invalidità e la c.d. scheda funzionale, in cui si annotano abilità, capacità lavorative, competenze, utili a valutare le mansioni più idonee per il soggetto interessato.Il soggetto in possesso del verbale della commissione medica attestante l’invalidità deve, infine, recarsi al centro per l’impiego territorialmente competente per potersi iscrivere all’elenco delle categorie protette.4 - Gli obblighi per i datori di lavoro e le sanzioni, anche alla luce delle recenti novità Il quadro normativo previsto dalla Legge n. 68/1999 ha mantenuto, per i datori di lavoro, l’obbligo di riservare una quota delle assunzioni ai disabili. Difatti, l’articolo 3 della detta Legge parla di “quota di riserva”, vale a dire la quota numerica di soggetti che appartengono alle categorie protette che il datore di lavoro è tenuto ad assumere.Questa quota varia a seconda del numero di lavoratori occupati nell’azienda. In particolare: a) con oltre 50 dipendenti, la quota di riserva è pari al 7% dei lavoratori occupati; b) da 36 a 50 dipendenti, la quota è pari a 2 lavoratori disabili; c) da 15 a 35 dipendenti, la quota è di 1 lavoratore disabile.Per tutti coloro i quali non adempiono gli obblighi di assunzione, sono previste, dall’articolo 15 della Legge 68/1999, sanzioni amministrative. In ottemperanza all’adeguamento periodico, recentemente il Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, Andrea Orlando, ha firmato due provvedimenti in materia di diritto al lavoro dei disabili. In particolare, i due decreti riguardano gli articoli 5 e 15 della Legge n. 68/1999.Con il primo provvedimento si è adeguato da € 30,64 a € 39,21 l’importo del contributo esonerativo dovuto dai datori di lavoro privati e dagli enti pubblici economici in presenza di speciali condizioni della loro attività per essere, parzialmente, esonerati dall’obbligo di assumere l’intera percentuale di lavoratori con disabilità prescritta.Il secondo provvedimento, invece, aumenta le sanzioni amministrative dovute dai datori di lavoro, pubblici e privati, che non rispettano gli obblighi informativi. Si tratta, in particolare, di quelle aziende con più di 15 dipendenti che non inviano un prospetto informativo agli uffici competenti con il numero complessivo dei lavoratori dipendenti per calcolare la quota riservata ai lavoratori disabili. Tale obbligo scatta automaticamente dall’assunzione del quindicesimo dipendente e l’azienda avrà 60 giorni per inoltrare il prospetto.Laddove non si proceda a tale adempimento, il datore di lavoro è soggetto ad una sanzione amministrativa che, con l’entrata in vigore del nuovo provvedimento ministeriale a partire dal 1° gennaio 2022, sarà incrementato da € 635,11 a € 702,43; sanzione che, peraltro, è maggiorata per ogni giorno di ritardo e il cui importo passa da € 30,76 a € 34,02.Qualora non si proceda a questo adempimento, il datore di lavoro è soggetto ad una sanzione amministrativa che, con l’entrata in vigore del provvedimento citato, verrà incrementata da 635,11 a 702,43 euro.Sanzione che, peraltro, viene maggiorata per ogni giorno di ritardo. L’importo della maggiorazione, come anticipato, passa da 30,76 a 34,02 euro.
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14 gen. 2021 • tempo di lettura 3 minuti
Con uno dei primi provvedimenti adottati per fronteggiare l’emergenza sanitaria tutt’ora in corso (il c.d. Decreto Cura Italia), il Governo si era preoccupato di vietare ai datori di lavoro di procedere al licenziamento del proprio personale per un periodo di 60 giorni. Con il perdurare della pandemia, tale divieto è stato via via prorogato fino ad oggi. Cerchiamo di capire di che cosa si tratta e di delineare con chiarezza i confini delle disposizioni rilevanti. Cosa prevede la normativa attualmente in vigore?Quali licenziamenti restano possibili?Quali conseguenze in caso di violazione del divieto di licenziamento?Il difficile equilibrio tra libertà imprenditoriale e tutela dei lavoratori.1 - Cosa prevede la normativa attualmente in vigore?L’attuale disciplina del divieto di licenziamento è contenuta all’interno della legge di bilancio per il 2021 e prevede limitazioni sia ai licenziamenti collettivi che ai licenziamenti individuali fino al 31 marzo 2021. In particolare: è precluso l’avvio di nuove procedure di licenziamento collettivo e restano sospese quelle già pendenti avviate successivamente al 23 febbraio 2020; sono preclusi, a prescindere dal numero di dipendenti del datore di lavoro, i licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo e restano sospese le procedure già in corso davanti agli Ispettorati Territoriali del Lavoro (i.e. quelle procedure, obbligatorie nel caso in cui si intenda licenziare un dipendente assunto prima del 7 marzo 2015, finalizzate a ricercare soluzioni alternative al licenziamento). 2 - Quali licenziamenti restano possibili?Ragionando per differenza rispetto ai contenuti della norma sopra riportata, ne segue che restano implicitamente escluse dal divieto (e rimangono quindi possibili) alcune forme di licenziamento. Tra queste, le più importanti sono quelle aventi ad oggetto i licenziamenti disciplinari e i licenziamenti dei dirigenti. Inoltre, la stessa disciplina del divieto di licenziamento prevede espressamente che si possano comunque disporre i seguenti licenziamenti: licenziamenti motivati dalla cessazione definitiva dell’attività dell’impresa conseguenti alla messa in liquidazione della stessa (a meno che nel corso della liquidazione non si configuri un trasferimento d’azienda ex art. 2112 c.c.); licenziamenti che rientrano nell’ambito di un accordo collettivo aziendale di incentivo alla risoluzione dei rapporti di lavoro (ma solo per quei lavoratori che vi aderiscano); licenziamenti intimati in caso di fallimento, quando non sia previsto l’esercizio provvisorio dell’impresa o ne sia disposta la cessazione. Da ultimo, è opportuno segnalare che il divieto in esame non incide in alcun modo sulla possibilità di raggiungere accordi di risoluzione consensuale, che quindi restano un’utile via per cercare di gestire gli esuberi di personale. 3 - Quali conseguenze in caso di violazione del divieto di licenziamento?Ad oggi, non sono previste disposizioni specifiche che chiariscano le conseguenze per i datori di lavoro che violano il divieto di licenziamento. Tuttavia, si ritiene che una tale violazione comporti la nullità del licenziamento stesso e la reintegra del lavoratore nel suo posto di lavoro. 4 - Il difficile equilibrio tra libertà imprenditoriale e tutela dei lavoratori.Il divieto in questione limita in maniera abbastanza invasiva la libertà imprenditoriale dei datori di lavoro. Tuttavia, dall’altro lato, c’è l’esigenza di evitare che il prezzo della crisi dovuta all’emergenza Covid gravi in maniera insostenibile sulle spalle dei lavoratori. Non è affatto difficile immaginare quale sarebbe stato lo scenario degli ultimi mesi in mancanza del divieto di licenziamento: migliaia di piccole, medie e grandi imprese che, per cercare di ridurre l’impatto del Covid-19, avrebbero messo in atto consistenti ridimensionamenti ed esuberi di personale. Purtroppo, lo scenario appena descritto potrebbe essere stato solo rimandato di qualche mese. Resta infatti ancora da capire cosa succederà dal 1 aprile 2021, quando, salvo ulteriori proroghe, l’argine del divieto di licenziamento verrà meno. Editor: dott. Giovanni Fabris
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Egregio Avvocato
25 mar. 2021 • tempo di lettura 3 minuti
Con riferimento al possibile orizzonte temporale dei rapporti di lavoro, la grande alternativa è quella tra lavoro tempo indeterminato e lavoro tempo determinato. Nel corso degli anni, la disciplina del lavoro a tempo determinato è stata oggetto di varie riforme, da ultimo quella introdotta dal D.L. 87/2018 (più comunemente noto come “Decreto Dignità”). Cerchiamo di capire quali sono, ad oggi, i principali limiti posti dal lavoro a termine. La durata massimaLe causaliQuali conseguenze in caso di violazione delle regole sulla durata massima? Le proroghe e i rinnoviI divietiIl diritto di precedenza1 - La durata massimaIn generale la legge consente di sottoporre un contratto di lavoro subordinato ad un termine massimo di 12 mesi. Tuttavia, a talune condizioni (c.d. causali – cfr. sub punto 2) il contratto a termine può avere una durata anche superiore, purché non ecceda i 24 mesi. Il rapporto in questione può inoltre essere prolungato fino ad un massimo di 12 mesi ulteriori (i.e. per un potenziale periodo complessivo pari a 36 mesi) se i soggetti in questione stipulano un nuovo contratto a termine dinanzi alla Direzione Territoriale del Lavoro competente. 2 - Le causaliLe causali che da sole giustificano una durata superiore ai 12 mesi (ma pur sempre entro i 24) sono previste dalla legge e consistono in: esigenze temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività, ovvero esigenze di sostituzione di altri lavoratori;esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell’attività ordinaria. 3 - Quali conseguenze in caso di violazione delle regole sulla durata massima? In caso di stipulazione di un contratto di durata superiore a 12 mesi in assenza delle causali o di mancato rispetto della procedura per la stipulazione di un nuovo contratto a termine che comporti una durata complessiva del rapporto superiore a 24 mesi, il contratto si trasforma automaticamente a tempo indeterminato. 4 - Le proroghe e i rinnoviIl contratto a tempo determinato può essere prorogato (i.e. prolungato senza soluzione di continuità) liberamente quando la durata complessiva che si viene a determinare in conseguenza della proroga non supera i 12 mesi. In caso contrario, il contratto potrà essere prorogato solo in presenza di una delle causali sopra menzionate. In ogni caso, il contratto può essere prorogato per un massimo di 4 volte nell’arco di 24 mesi. Per procedere al rinnovo invece (i.e. un nuovo contratto a termini e condizioni sostanzialmente analoghi) la presenza di una delle causali di cui sopra è sempre necessaria, a prescindere dalla durata complessiva del rapporto che si viene a determinare in conseguenza del rinnovo medesimo. 5 - I divietiL’apposizione di un termine alla durata di un contratto di lavoro subordinato non è ammessa: per sostituire lavoratori che esercitano il diritto di sciopero; presso unità produttive nelle quali, nei 6 mesi precedenti, si è proceduto a licenziamenti collettivi che hanno riguardato lavoratori adibiti alle stesse mansioni cui si riferisce il contratto di lavoro a tempo determinato (sul punto esistono però alcune eccezioni); presso unità produttive nelle quali sono in corso procedure di cassa integrazione che interessano lavoratori adibiti alle stesse mansioni cui si riferisce il contratto di lavoro a tempo determinato; da parte di datori di lavoro che non hanno effettuato la valutazione dei rischi in applicazione della normativa di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori. 6 - Il diritto di precedenzaSalvo diversa disposizione dei contratti collettivi, il lavoratore che, nell’esecuzione di uno o più contratti a tempo determinato, ha prestato la propria attività lavorativa per un periodo superiore a 6 mesi presso la stessa azienda, ha diritto di precedenza nelle assunzioni a tempo indeterminato effettuate da quel datore nei 12 mesi successivi con riferimento alle mansioni espletate in esecuzione del rapporto a termine. Editor: Giovanni Fabris
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