Avv. Marco Mezzi
1 - Come funziona il congedo parentale?
Il congedo parentale è un periodo di astensione facoltativa dal lavoro concesso ai genitori per l’assistenza e la cura del figlio nei suoi primi anni di vita nonché, ovviamente, per soddisfare i bisogni affettivi e relazionali.
Ma come funziona il congedo parentale?
Il congedo parentale spetta ai genitori naturali, in costanza di rapporto lavorativo, entro i primi dodici anni di vita del bambino e per un periodo complessivo tra i due genitori che non superi i dieci mesi. Questi mesi salgono a undici laddove il padre lavoratore si astenga dal lavoro per un periodo, continuativo o frazionato, di almeno tre mesi.
Nell’ipotesi in cui il rapporto di lavoro cessi all’inizio o durante il periodo di congedo, il diritto allo stesso viene, ovviamente, meno dalla data di interruzione del lavoro.
2 - A chi spetta e quanto dura il congedo parentale?
Considerata la definizione data pocanzi, a chi spetta e quanto dura effettivamente il diritto di astenersi dal lavoro?
Innanzitutto, il congedo parentale spetta alla madre lavoratrice dipendente per un periodo, continuativo o frazionato, di massimo sei mesi.
In secondo luogo, spetta al padre lavoratore dipendente per un periodo, continuativo o frazionato di massimo sei mesi, che possono diventare sette nel caso di astensione dal lavoro per un periodo, sempre continuativo o frazionato, di almeno tre mesi. Occorre aggiungere, altresì, che al padre lavoratore dipendente spetta anche durante il periodo di astensione obbligatoria della madre e anche nell’ipotesi in cui la stessa non lavori.
Il congedo parentale spetta, anche, al genitore solo – padre o madre che sia – per il periodo, frazionato o continuativo, di massimo dieci mesi.
Ai lavoratori dipendenti che siano genitori adottivi o affidatari, il congedo spetta con le medesime modalità dei genitori naturali e, quindi, entro i primi dodici anni dall’ingresso del minore nella famiglia, indipendentemente dall’età del bambino all’atto dell’adozione o dell’affidamento e, in ogni caso, non oltre il compimento della sua maggiore età.
La Legge n. 228 del 2012 ha introdotto la possibilità di frazionare a ore il congedo parentale rinviando, poi, alla contrattazione collettiva di settore il compito di stabilire le modalità di fruizione del congedo su base oraria e l’equiparazione di un dato monte ore alla singola giornata lavorativa.
3 - Congedo parentale e indennità
Durante la fruizione del congedo parentale il lavoratore non percepisce la vera e propria retribuzione bensì un’indennità sostitutiva, erogata dall’INPS, che viene calcolata in misura percentuale alla retribuzione.
In particolare, occorre dire che la retribuzione corrisposta durante i periodi di congedo parentale è legata all’età del figlio per cui tali periodi sono richiesti.
Sino a sei anni di età, spetta il 30% della retribuzione media giornaliera calcolata sulla base della retribuzione del mese precedente l’inizio del congedo. Dai sei agli otto anni, spetta il 30% solo se il lavoratore versi in uno stato di disagio economico e che lo stesso sia documentato. Infine, dagli otto ai dodici anni non è previsto alcuna retribuzione.
4 - Come occorre presentare la domanda?
La domanda per i periodi di congedo deve essere effettuata telematicamente tramite il portale web dell’INPS, accedendovi con SPID, Carta d’Identità Elettronica, Carta Nazionale dei Servizi o PIN rilasciato dallo stesso istituto.
In alternativa, la domanda può essere effettuata anche tramite i patronati o usufruendo del servizio call center fornito dall’INPS stessa.
5 - Congedo parentale ed emergenza Covid.
La crisi epidemiologica da Covid 19 ha reso necessario potenziare lo strumento del congedo parentale, concedendo più tempo ai genitori lavoratori da dedicare alla cura e all’assistenza dei figli e incrementando l’indennità erogata dall’INPS.
Più nel dettaglio, con il decreto n. 30 del 2021, il Governo ha istituito il c.d. congedo parentale COVID, in aggiunta all’ordinario congedo parentale.
Tale congedo, per così dire, straordinario può essere richiesto solamente nell’ipotesi in cui non sia possibile prestare la propria attività lavorativa “da remoto” (c.d. smart working) e, pertanto, in caso di infezione da Covid 19 o quarantena del figlio disposta dall’ASL, per tutto il periodo di assenza da scuola, nonché in caso di sospensione dell’attività didattica in presenza del figlio, per tutta la durata, o anche solo per una parte, della stessa.
In tali ipotesi, si può usufruire di un congedo al 50% della retribuzione e coperti da contribuzione figurativa, laddove i figli abbiano meno di quattordici anni, oppure di un congedo senza retribuzione e contribuzione figurativa, se i figli abbiano un’età compresa tra i quattordici e i sedici anni. In tale ultima ipotesi, ovviamente, il genitore che usufruisce del congedo ha il diritto alla conservazione del posto di lavoro.
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9 dic. 2021 • tempo di lettura 6 minuti
Con la Legge n. 80 del 1898 fu introdotta, per la prima volta, l’assicurazione sociale per gli infortuni sul lavoro, cui fece seguito l’assicurazione per le malattie professionali e il Testo Unico delle disposizioni in materia di assicurazione obbligatoria.Questa complessa disciplina è intervenuta a regolare il c.d. rischio professionale, vale a dire il rischio correlato all’attività lavorativa. Con l’avvento dell’assicurazione sociale si è, sostanzialmente, trasferita la titolarità di questo rischio – prevista dall’art. 2087 c.c. in capo al datore di lavoro – da quest’ultimo all’istituto previdenziale che, in caso di lesioni incorse al lavoratore, lo indennizza.Nel corso del tempo, tuttavia, la tutela al lavoratore si è sempre più estesa, non limitandosi solamente agli infortuni occorsi sul luogo di lavoro, ma prendendo in esame anche i c.d. infortuni in itinere.L’infortunio sul lavoro: cosa s’intende per infortunio in itinere?Il “normale percorso” e le sue variazioni. Le condizioni di operatività della tutelaInfortunio in itinere e le differenti modalità di percorrenzaGli adempimenti da compiere I limiti alla tutela1 - L’infortunio sul lavoro: cosa s’intende per infortunio in itinere?L’infortunio sul lavoro può essere definito come il danneggiamento all’integrità psico – fisica di un individuo che si verifica a causa di un fattore esterno durante il normale svolgimento dell’attività lavorativa. Pertanto, almeno inizialmente, la tutela previdenziale veniva riconosciuta solamente a coloro i quali, considerate mansioni svolte e posizioni ricoperte, fossero esposti a rischio durante il proprio orario lavorativo. Con le modifiche intervenute al Testo Unico delle disposizioni per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, tuttavia, ha assunto rilevanza anche il c.d. infortunio in itinere.Ma cosa s’intende per infortunio in itinere? In base alla lettera dell’art. 12 del Decreto Legislativo n. 38/2000 è possibile definirlo una tipologia di infortunio che si verifica lungo il normale percorso che il lavoratore compie spostandosi: a) dal luogo di abitazione a quello di lavoro e viceversa; b) da un primo luogo di lavoro ad un altro laddove il lavoratore sia impegnato in differenti rapporti lavorativi; oppure c) dal luogo di lavoro a quello di consumazione abituale dei pasti e viceversa.2 - Il “normale percorso” e le sue variazioni. Le condizioni di operatività della tutelaSi parla, quindi, di “normale percorso” che il lavoratore compie. Ma cosa si deve intendere con questa “formula”?Sul punto la dottrina ha interpretato la norma considerando “normale percorso” quello più breve e diretto, vale a dire quello che normalmente o, quanto meno, abitualmente il lavoratore compie ma, anche, quello non abituale ma che sia giustificato da concrete situazioni che impongano di percorrerlo in una data occasione.Ne consegue che, almeno teoricamente, tutte le eventuali variazioni effettuate nei tragitti abituali, se non sono la diretta conseguenza di necessità improrogabili, non farebbero rientrare un eventuale infortunio tra quelle da annoverare come avvenuto in itinere.Le variazioni per far permanere la tutela al lavoratore in caso di infortunio devono essere effettuate per adempiere a un ordine impartito dal datore di lavoro oppure scaturire da cause di forza maggiore o esigenze improrogabili o per adempiere a obblighi penalmente rilevanti.Le condizioni per l’operatività della tutela sono essenzialmente tre. Difatti, affinché operi la tutela assicurativa, lo spostamento, oltre che esser compiuto lungo il “normale percorso” deve avere fini lavorativi e deve sussistere un nesso causale tra il tragitto e l’attività lavorativa.3 - Infortunio in itinere e le differenti modalità di percorrenzaSe è vero che le condizioni per l’operatività della tutela sono tre, è altrettanto vero che, ai fini dell’indennizzabilità dell’infortunio in itinere, si debba prendere in considerazione anche la modalità di spostamento impiegata dal lavoratore per coprire il normale percorso.Innanzitutto, basandosi sui chiarimenti forniti dalla stessa INAIL in vari circolari si può tranquillamente affermare che, in presenza delle tre condizioni già citate, laddove il tragitto sia percorso con le “ordinarie modalità” di spostamento, opera senza dubbio la copertura assicurativa.In altri termini, saranno indennizzati tutti quegli infortuni avvenuti spostandosi a piedi o a bordo di mezzi pubblici. Sembrerebbe, quindi, che non ci sia invece spazio per indennizzare gli infortuni occorsi a bordo di mezzi propri. Tuttavia, la normativa stabilisce che l’assicurazione infortuni sul lavoro opera anche nel caso si utilizzi un mezzo di trasporto privato, purché necessitato. Stando all’interpretazione giurisprudenziale, il requisito della necessità va valutato attraverso differenti fattori e, in via ragionevole, si considera giustificato l’uso del mezzo privato quando: a) il mezzo è fornito dal datore di lavoro per esigenze lavorative, b) non esistono mezzi pubblici di trasporto che collegano il luogo di abitazione con il luogo di lavoro o non vi è coincidenza di orari, c) il risparmio di tempo, utilizzando il mezzo privato, sia pari o superiore a un’ora per tragitto.Cosa accade, però, se il mezzo utilizzato non è a motore? Considerata la sempre maggior diffusione nell’utilizzo della bicicletta, l’INAIL aveva inizialmente interpretato estensivamente l’art. 12 del Decreto Legislativo 38/2000, stabilendo che l’infortunio occorso a bordo di un velocipede, percorrendo una strada aperta al traffico di veicoli a motore, dovesse essere indennizzato solo in presenza delle condizioni necessarie per rendere necessitato l’uso della bicicletta, mentre si potesse prescindere dalle condizioni di necessità qualora l’infortunio si fosse verificato in un tratto di percorso protetto come ad esempio una pista ciclabile.Sul punto sono intervenuti anche il legislatore e la giurisprudenza, espressamente stabilendo che l’utilizzo della bicicletta come mezzo privato per il raggiungimento del posto di lavoro debba sempre considerarsi “necessitato”.4 - Gli adempimenti da compiere Una volta occorso il sinistro, il lavoratore ha l’obbligo per legge di avvisare o far avvisare il proprio datore di lavoro. Comunicazione che deve essere immediata poiché non ottemperando a tale obbligo si perde il diritto alle prestazioni INAIL per i giorni antecedenti a quello in cui il datore di lavoro ha avuto notizia dell’infortunio.Una volta appresa la notizia, il datore di lavoro deve inviare, a seconda dei casi, la comunicazione o la denuncia dell’infortunio stesso all’INAIL.In particolare, la comunicazione di infortunio va presentata nell’ipotesi di prognosi e assenza del lavoratore per almeno un giorno successivo a quello dell’evento oppure per assenza prolungata sino a tre giorni. Essa va presentata telematicamente entro 48 ore da quando è stato inviato il certificato medico ed è meramente fini informativi.La denuncia di infortunio, invece, va presentata nel caso in cui vi sia una prognosi che vada oltre i 3 giorni successivi all’evento. In queste ipotesi, il datore di lavoro dovrà inoltrare la denuncia all’INAIL entro 48 ore dal momento della conoscenza dell’infortunio o entro 24 ore per i casi più gravi.5 - I limiti alla tutelaIn linea teorica, in caso di infortunio in itinere accaduto per colpa del lavoratore, gli aspetti soggettivi della condotta – negligenza, imprudenza, imperizia, violazione di norme – non assumono rilevanza ai fini della indennizzabilità, poiché si ritiene che la colpa del lavoratore non interrompa il nesso causale tra il rischio lavorativo e l’infortunio, a meno che non si configurino comportamenti talmente eccessivi da rientrare nel c.d. rischio elettivo.Il rischio elettivo, secondo la Corte di Cassazione, è definibile come una deviazione arbitraria dalle normali modalità lavorative per finalità personali, che comporta rischi diversi da quelli inerenti alle normali modalità di esecuzione della prestazione (Cass. n. 19081/2013).Ne deriva che la tutela assicurativa dell’infortunio in itinere non copre quegli infortuni avvenuti a causa: di deviazioni o soste effettuate per esigenze personali, di deviazioni effettuate per scelta del lavoratore, dell’abuso di sostanze alcoliche, stupefacenti, psicotrope, della violazione del Codice della Strada.Editor: avv. Marco Mezzi
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Egregio Avvocato
27 gen. 2022 • tempo di lettura 1 minuti
La parità in materia di lavoro e l’abolizione di ogni forma di discriminazione è stata prevista dalla Costituzione espressamente in relazione alla donna ed al minore, considerati da sempre soggetti “deboli” del rapporto di lavoro.Infatti, per eliminare ogni disparità di trattamento tra uomini e donne, venne introdotta nel nostro ordinamento la L. n. 903/1977 relativa alla parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro.La normiva predetta oltre ad aver previsto il divieto di qualsiasi discriminazione fondata sul sesso con riferimento all’accesso al lavoro, ha introdotto altre regole tra cui: la parità di retribuzione; parità di progressione della carriera e la parità di diritti.Nonostante l’emanazione della predetta legge, la parità anche se formalmente affermata non veniva attuata in concreto. Pertanto, al fine di rimuovere gli ostacoli che, di fatto, impedivano la realizzazione di una sostanziale ed effettiva parità, è stata emanata la L. n. 125/1991.Le citate disposizioni, poi, sono confluite nel “Codice delle pari opportunità tra uomo e donna” che prevede misure volte ad eliminare ogni discriminazione basata sul sesso. In particolare, l’art. 27 del Codice vieta qualsiasi discriminazione inerenti l’accesso al lavoro, prodotte in qualsiasi forma.Con l’adesione all’Unione europea è stato inoltre recepito nel nostro ordinamento il principio di libera circolazione dei lavoratori, con conseguente abolizione di ogni discriminazione fondata sulla nazionalità tra i lavoratori degli Stati membri sia per quanto riguarda l’impiego, la retribuzione e le altre condizioni di lavoro.
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Egregio Avvocato
21 dic. 2020 • tempo di lettura 3 minuti
Ormai è chiaro a tutti chi siano i c.d. riders, quei ciclofattorini con un grande zaino cubico pieno di vivande che scorrazzano in bici per effettuare consegne a domicilio. Ciò che probabilmente è meno chiaro, e su cui si ritiene utile cercare di fare chiarezza in questa sede, è il tipo rapporto di lavoro che di fatto si instaura tra la piattaforma che gestisce il servizio di delivery (e.g. Foodora, Glovo, Uber Eats, per citarne alcune) e i riders che si registrano alla stessa per accedere alle richieste di consegna degli utenti. Rapporto di lavoro autonomo o subordinato: esiste una risposta?Come si è evoluta la giurisprudenza sul tema?La recente sentenza del Tribunale di PalermoLe tutele: obiettivo raggiunto?1 - Rapporto di lavoro autonomo o subordinato: esiste una risposta?Dal momento che molto dipende da come si atteggia concretamente il rapporto tra piattaforma e riders nei singoli casi di specie, non è possibile identificare una risposta univoca e valida per tutte le circostanze. Tuttavia, dando un’occhiata al quadro giurisprudenziale e normativo che si sta formando in Italia sul tema, è sicuramente riscontrabile una crescente attenzione nei confronti delle esigenze di tutela dei riders. 2 - Come si è evoluta la giurisprudenza sul tema?In un primo momento la giurisprudenza si è mossa nel senso di non ritenere applicabile ai riders la disciplina tipica del rapporto di lavoro subordinato. Secondo il Tribunali di Torino e Milano, il rapporto di lavoro dei riders non solo non può essere riconosciuto come rapporto di lavoro subordinato in senso classico (ex art. 2094 c.c.), ma nemmeno come rapporto di collaborazione prevalentemente personale e continuativa (tipologia di rapporto per il quale il Jobs Act prevede che si applichi la medesima disciplina del rapporto di lavoro subordinato). In concreto tali pronunce hanno ritenuto che la libertà dei riders di decidere se e quando lavorare comprometta a monte il potere organizzativo e direttivo della piattaforma nei loro confronti, rappresentando così un elemento decisivo a favore dell’autonomia del rapporto. Successivamente, tale approccio è stato parzialmente sconfessato, dal momento che alcune pronunce sono arrivate ad affermare che la libertà dei riders di decidere se e quando lavorare sia effettivamente riscontrabile solo nella fase genetica del rapporto mentre, nella fase esecutiva, i riders sarebbero pienamente inseriti nell’organizzazione della piattaforma, che stabilisce in maniera più o meno penetrante le modalità della prestazione. Ciò ha portato i giudici a concludere che, sebbene i riders siano da considerarsi tecnicamente autonomi, date le peculiarità che caratterizzano il concreto atteggiarsi del loro rapporto di lavoro, debbano rientrare nell’ambito applicativo del Jobs Act (in particolare art. 2 del d.lgs. 81/2015), con la conseguente applicabilità della disciplina del rapporto di lavoro subordinato.Quest’ultimo orientamento risultava del resto coerente con l’intervento normativo del 2019 il quale, da un lato, ha espressamente previsto che anche le prestazioni di lavoro organizzate mediante piattaforme digitali rientrano nell’ambito dell’art. 2 del d.lgs. 81/2015 e, dall’altro, ha introdotto specifiche disposizioni volte a regolare e tutelare specificamente la figura dei riders (e.g. in tema di compenso, copertura assicurativa ecc.). 3 - La recente sentenza del Tribunale di PalermoSe il punto di arrivo di cui sopra, di fatto condiviso sia dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione che dal legislatore, sembrava poter chiudere la questione, una recentissima sentenza del Tribunale di Palermo è andata addirittura oltre e, tenuto conto di tutte le circostanze del caso concreto, è arrivata a riconoscere il rider ricorrente non come collaboratore continuativo della piattaforma che presta la propria opera in maniera prevalentemente personale, ma addirittura come lavoratore subordinato ai sensi dell’art. 2094 c.c. 4 - Le tutele: obiettivo raggiunto?Pare quindi potersi affermare che i riders siano riusciti ad ottenere quelle tutele che inizialmente erano loro negate. Infatti, o per il tramite delle modifiche al Jobs Act o per il tramite di un accertamento in concreto che porti a qualificarli in tutto e per tutto come lavoratori dipendenti, agli stessi è stato riconosciuto il diritto a vedersi applicata la disciplina del rapporto di lavoro subordinato. Editor: dott. Giovanni Fabris
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Egregio Avvocato
25 mar. 2021 • tempo di lettura 3 minuti
Con riferimento al possibile orizzonte temporale dei rapporti di lavoro, la grande alternativa è quella tra lavoro tempo indeterminato e lavoro tempo determinato. Nel corso degli anni, la disciplina del lavoro a tempo determinato è stata oggetto di varie riforme, da ultimo quella introdotta dal D.L. 87/2018 (più comunemente noto come “Decreto Dignità”). Cerchiamo di capire quali sono, ad oggi, i principali limiti posti dal lavoro a termine. La durata massimaLe causaliQuali conseguenze in caso di violazione delle regole sulla durata massima? Le proroghe e i rinnoviI divietiIl diritto di precedenza1 - La durata massimaIn generale la legge consente di sottoporre un contratto di lavoro subordinato ad un termine massimo di 12 mesi. Tuttavia, a talune condizioni (c.d. causali – cfr. sub punto 2) il contratto a termine può avere una durata anche superiore, purché non ecceda i 24 mesi. Il rapporto in questione può inoltre essere prolungato fino ad un massimo di 12 mesi ulteriori (i.e. per un potenziale periodo complessivo pari a 36 mesi) se i soggetti in questione stipulano un nuovo contratto a termine dinanzi alla Direzione Territoriale del Lavoro competente. 2 - Le causaliLe causali che da sole giustificano una durata superiore ai 12 mesi (ma pur sempre entro i 24) sono previste dalla legge e consistono in: esigenze temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività, ovvero esigenze di sostituzione di altri lavoratori;esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell’attività ordinaria. 3 - Quali conseguenze in caso di violazione delle regole sulla durata massima? In caso di stipulazione di un contratto di durata superiore a 12 mesi in assenza delle causali o di mancato rispetto della procedura per la stipulazione di un nuovo contratto a termine che comporti una durata complessiva del rapporto superiore a 24 mesi, il contratto si trasforma automaticamente a tempo indeterminato. 4 - Le proroghe e i rinnoviIl contratto a tempo determinato può essere prorogato (i.e. prolungato senza soluzione di continuità) liberamente quando la durata complessiva che si viene a determinare in conseguenza della proroga non supera i 12 mesi. In caso contrario, il contratto potrà essere prorogato solo in presenza di una delle causali sopra menzionate. In ogni caso, il contratto può essere prorogato per un massimo di 4 volte nell’arco di 24 mesi. Per procedere al rinnovo invece (i.e. un nuovo contratto a termini e condizioni sostanzialmente analoghi) la presenza di una delle causali di cui sopra è sempre necessaria, a prescindere dalla durata complessiva del rapporto che si viene a determinare in conseguenza del rinnovo medesimo. 5 - I divietiL’apposizione di un termine alla durata di un contratto di lavoro subordinato non è ammessa: per sostituire lavoratori che esercitano il diritto di sciopero; presso unità produttive nelle quali, nei 6 mesi precedenti, si è proceduto a licenziamenti collettivi che hanno riguardato lavoratori adibiti alle stesse mansioni cui si riferisce il contratto di lavoro a tempo determinato (sul punto esistono però alcune eccezioni); presso unità produttive nelle quali sono in corso procedure di cassa integrazione che interessano lavoratori adibiti alle stesse mansioni cui si riferisce il contratto di lavoro a tempo determinato; da parte di datori di lavoro che non hanno effettuato la valutazione dei rischi in applicazione della normativa di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori. 6 - Il diritto di precedenzaSalvo diversa disposizione dei contratti collettivi, il lavoratore che, nell’esecuzione di uno o più contratti a tempo determinato, ha prestato la propria attività lavorativa per un periodo superiore a 6 mesi presso la stessa azienda, ha diritto di precedenza nelle assunzioni a tempo indeterminato effettuate da quel datore nei 12 mesi successivi con riferimento alle mansioni espletate in esecuzione del rapporto a termine. Editor: Giovanni Fabris
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