Egregio Avvocato
Pubblicato il 27 gen. 2022 · tempo di lettura 1 minuti
Infatti, per eliminare ogni disparità di trattamento tra uomini e donne, venne introdotta nel nostro ordinamento la L. n. 903/1977 relativa alla parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro.
Nonostante l’emanazione della predetta legge, la parità anche se formalmente affermata non veniva attuata in concreto. Pertanto, al fine di rimuovere gli ostacoli che, di fatto, impedivano la realizzazione di una sostanziale ed effettiva parità, è stata emanata la L. n. 125/1991.
Le citate disposizioni, poi, sono confluite nel “Codice delle pari opportunità tra uomo e donna” che prevede misure volte ad eliminare ogni discriminazione basata sul sesso. In particolare, l’art. 27 del Codice vieta qualsiasi discriminazione inerenti l’accesso al lavoro, prodotte in qualsiasi forma.
Con l’adesione all’Unione europea è stato inoltre recepito nel nostro ordinamento il principio di libera circolazione dei lavoratori, con conseguente abolizione di ogni discriminazione fondata sulla nazionalità tra i lavoratori degli Stati membri sia per quanto riguarda l’impiego, la retribuzione e le altre condizioni di lavoro.
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Egregio Avvocato
17 gen. 2022 • tempo di lettura 4 minuti
I lavoratori dipendenti possono usufruire di speciali permessi retribuiti o congedi per la cura e l’assistenza dei loro familiari portatori di handicap in presenza di determinate condizioni.La tutela riguarda i familiari di coloro i quali presentano una minorazione fisica, psichica o sensoriale stabilizzata o progressiva grave, in grado da ridurre l’autonomia personale e rendendo necessaria un’assistenza permanente continuativa e globale.L’accertamento dello stato di gravità della minorazione viene effettuato da un’apposita commissione Asl.Chi può beneficiare e quali sono le condizioni per beneficiare dei permessi retribuiti?È possibile il cumulo dei permessi?Da chi viene riconosciuta l’indennità per le persone beneficiarie dei permessi?Cos’è il congedo straordinario?1 – Chi può beneficiare dei permessi retribuiti?Ai sensi dell’articolo 33 della L. 104/92, i genitori naturali, adottivi ed affidatari e determinati familiari (partenti ed affini entro il 2° grado) di portatori di handicap, nel momento in cui sono lavoratori dipendenti, possono beneficiare dei c.d. permessi retribuiti. Generalmente, tali permessi vengono riconosciuti a condizione che la persona da assistere non sia ricoverata a tempo pieno presso strutture ospedaliere o simili pubbliche o private che assicurino assistenza sanitaria continuativa.Tuttavia, però, i permessi vengono concessi anche in caso di ricovero a tempo pieno: a) del disabile quando sono i sanitari stessi a certificare il bisogno di assistenza da parte di un genitore o di un familiare; b) del disabile in stato vegetativo persistente.I permessi vengono concessi quando il disabile deve recarsi al di fuori della struttura che lo ospita per effettuare visite specialistiche e/o terapie certificate. In questo caso si interrompe il tempo pieno del ricovero e c’è l’affidamento del disabile all’assistenza del familiare.Sarà onere del lavoratore, per ogni mese in cui fruisce dei permessi, di produrre sia la documentazione che dimostri l’avvenuto accesso presso la struttura esterna specializzata, sia la dichiarazione della struttura ospitante che attesti che la persona disabile è stata affidata al familiare per tutta la durata della sua assenza dal lavoro. 2 - È possibile il cumulo dei permessi?Generalmente il permesso può essere utilizzato per l’assistenza di una sola persona disabile, tuttavia il lavoratore ha diritto ad assistere più persone disabili e quindi di cumulare i relativi permessi a condizione che si tratti del coniuge o affine entro il primo grado.Il cumolo è consentito quando la presenza del lavoratore è disgiuntamente necessaria per l’assistenza di ciascun disabile; è pertanto escluso quando altre persone possono fornire l’assistenza o quando lo stesso lavoratore può, per la durata della disabilità, sopperire congiuntamente alle necessità assistenziali nel corso dello stesso periodo. L’assistenza si considera disgiunta quando la prestazione nei confronti di due o più soggetti disabili può essere assicurata solo con modalità e in tempi diversi.Il richiedente deve presentare tante domande quanti sono i soggetti per i quali chiede i permessi a cui vanno allegate le idonee certificazioni relative alla particolare natura della disabilità. 3 - Da chi viene riconosciuta l’indennità per le persone beneficiarie dei permessi?Il trattamento economico a favore delle persone beneficiarie è riconosciuto dall’Inps mediante il meccanismo dell’anticipazione del datore di lavoro, che provvede poi al recupero mediante il flusso UniEmens.Solo nei confronti di alcune particolari categorie di lavoratori, come ad esempio gli operatori agricoli, lavoratori stagionali, domestici, ed in particolari ipotesi di mancata anticipazione da parte del datore di lavoro l’Inps provvede al pagamento diretto. Per poter usufruire dei permessi è necessario presentare domanda all’Inps in modalità esclusivamente telematica allegando i documenti che provano la disabilità.I familiari decadono dal diritto di fruire dei permessi se il datore di lavoro o l’Inps accertano l’insussistenza o il venir meno delle condizioni richieste per il godimento degli stessi.4 - Cos’è il congedo straordinario?L’articolo 42 del D. Lgs 151/2001 prevede il diritto per i lavoratori dipendenti familiari di persona gravemente disabile di usufruire del c.d. congedo straordinario.Il congedo spetta a condizione che la persona assistita non sia ricoverata a tempo pieno presso istituti specializzati secondo il seguente ordine di priorità: 1) coniuge o parte dell’unione civile; 2) genitori (naturali, adottivi o affidatari); 3) figli; 4) fratelli o sorelle, 5) parenti o affini entro il 3° grado.Se i due genitori sono lavoratori dipendenti il congedo spetta in via alternativa alla madre o al padre, se fruito alternativamente da entrambi i genitori, essi non possono contemporaneamente fruire di altri benefici previsti dalla legge per i genitori dei soggetti disabili.Il congedo ha la durata massima complessiva di due anni nell’arco dell’intera vita lavorativa del richiedente per ciascuna persona portatrice di handicap.I periodi di congedo straordinario rientrano nel limite massimo globale spettante a ciascun lavoratore per gravi e documentati motivi familiari.Per i genitori affidatari il congedo non può durare oltre la fine del periodo di affidamento.Durante il periodo di congedo il richiedente ha diritto a un’indennità economica a carico dell’Inps che viene anticipata dal datore di lavoro e recuperata mediante il flusso UniEmens, fatti salvi i casi di pagamento diretto da parte dell’Inps.L’indennità è pari alla retribuzione percepita nell’ultimo mese di lavoro che precede il congedo e durante il congedo il lavoratore ha diritto a richiedere l’accredito della contribuzione figurativa.
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14 gen. 2021 • tempo di lettura 3 minuti
Con uno dei primi provvedimenti adottati per fronteggiare l’emergenza sanitaria tutt’ora in corso (il c.d. Decreto Cura Italia), il Governo si era preoccupato di vietare ai datori di lavoro di procedere al licenziamento del proprio personale per un periodo di 60 giorni. Con il perdurare della pandemia, tale divieto è stato via via prorogato fino ad oggi. Cerchiamo di capire di che cosa si tratta e di delineare con chiarezza i confini delle disposizioni rilevanti. Cosa prevede la normativa attualmente in vigore?Quali licenziamenti restano possibili?Quali conseguenze in caso di violazione del divieto di licenziamento?Il difficile equilibrio tra libertà imprenditoriale e tutela dei lavoratori.1 - Cosa prevede la normativa attualmente in vigore?L’attuale disciplina del divieto di licenziamento è contenuta all’interno della legge di bilancio per il 2021 e prevede limitazioni sia ai licenziamenti collettivi che ai licenziamenti individuali fino al 31 marzo 2021. In particolare: è precluso l’avvio di nuove procedure di licenziamento collettivo e restano sospese quelle già pendenti avviate successivamente al 23 febbraio 2020; sono preclusi, a prescindere dal numero di dipendenti del datore di lavoro, i licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo e restano sospese le procedure già in corso davanti agli Ispettorati Territoriali del Lavoro (i.e. quelle procedure, obbligatorie nel caso in cui si intenda licenziare un dipendente assunto prima del 7 marzo 2015, finalizzate a ricercare soluzioni alternative al licenziamento). 2 - Quali licenziamenti restano possibili?Ragionando per differenza rispetto ai contenuti della norma sopra riportata, ne segue che restano implicitamente escluse dal divieto (e rimangono quindi possibili) alcune forme di licenziamento. Tra queste, le più importanti sono quelle aventi ad oggetto i licenziamenti disciplinari e i licenziamenti dei dirigenti. Inoltre, la stessa disciplina del divieto di licenziamento prevede espressamente che si possano comunque disporre i seguenti licenziamenti: licenziamenti motivati dalla cessazione definitiva dell’attività dell’impresa conseguenti alla messa in liquidazione della stessa (a meno che nel corso della liquidazione non si configuri un trasferimento d’azienda ex art. 2112 c.c.); licenziamenti che rientrano nell’ambito di un accordo collettivo aziendale di incentivo alla risoluzione dei rapporti di lavoro (ma solo per quei lavoratori che vi aderiscano); licenziamenti intimati in caso di fallimento, quando non sia previsto l’esercizio provvisorio dell’impresa o ne sia disposta la cessazione. Da ultimo, è opportuno segnalare che il divieto in esame non incide in alcun modo sulla possibilità di raggiungere accordi di risoluzione consensuale, che quindi restano un’utile via per cercare di gestire gli esuberi di personale. 3 - Quali conseguenze in caso di violazione del divieto di licenziamento?Ad oggi, non sono previste disposizioni specifiche che chiariscano le conseguenze per i datori di lavoro che violano il divieto di licenziamento. Tuttavia, si ritiene che una tale violazione comporti la nullità del licenziamento stesso e la reintegra del lavoratore nel suo posto di lavoro. 4 - Il difficile equilibrio tra libertà imprenditoriale e tutela dei lavoratori.Il divieto in questione limita in maniera abbastanza invasiva la libertà imprenditoriale dei datori di lavoro. Tuttavia, dall’altro lato, c’è l’esigenza di evitare che il prezzo della crisi dovuta all’emergenza Covid gravi in maniera insostenibile sulle spalle dei lavoratori. Non è affatto difficile immaginare quale sarebbe stato lo scenario degli ultimi mesi in mancanza del divieto di licenziamento: migliaia di piccole, medie e grandi imprese che, per cercare di ridurre l’impatto del Covid-19, avrebbero messo in atto consistenti ridimensionamenti ed esuberi di personale. Purtroppo, lo scenario appena descritto potrebbe essere stato solo rimandato di qualche mese. Resta infatti ancora da capire cosa succederà dal 1 aprile 2021, quando, salvo ulteriori proroghe, l’argine del divieto di licenziamento verrà meno. Editor: dott. Giovanni Fabris
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Egregio Avvocato
30 set. 2021 • tempo di lettura 5 minuti
Per mobbing si intende l’insieme dei comportamenti aggressivi e persecutori posti in essere sul luogo di lavoro, al fine di emarginare il soggetto che ne è vittima.Sebbene non esista una legge esplicitamente dedicata a questo fenomeno, l’ordinamento comunque offre diversi strumenti di tutela.Cos’è il mobbing? Quali i suoi elementi costitutivi? Qual è la normativa di riferimento?È previsto il risarcimento del danno? Vi sono altri strumenti per difendersi?1 - Cos’è il mobbing? Quali i suoi elementi costitutivi?Da diverso tempo il termine mobbing è entrato a far parte del vocabolario comune per indicare una serie di comportamenti aggressivi e persecutori posti in essere sul luogo di lavoro, al fine di colpire ed emarginare il soggetto che ne è vittima.Pur mancando un’espressa disciplina in merito, la giurisprudenza ha definito il fenomeno del mobbing come “una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei membri dell’ufficio o dell’unità produttiva in cui è inserito o da parte del suo datore di lavoro, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all’obiettivo primario di escludere la vittima del gruppo”.Da questa definizione ne consegue che le condotte in grado di integrare il fenomeno del mobbing possono essere le più svariate: ad esempio il lavoratore potrebbe ritrovarsi relegato in una postazione scomoda, essere escluso da riunioni, comunicazioni, progetti, essere assegnato a qualifica inferiori o dequalificanti, e così via.Come ha chiarito la giurisprudenza – sul punto è intervenuta anche la Corte di Cassazione – gli elementi costitutivi del mobbing sono: a) una serie di comportamenti persecutori posti in essere contro la vittima in modo mirato, sistematico e prolungato nel tempo; b) l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del lavoratore; c) il nesso di causalità tra le condotte e il pregiudizio; d) l’elemento soggettivo, ossia l’intento persecutorio.2 - Qual è la normativa di riferimento?Come già detto, nell’ordinamento italiano manca una disciplina specificatamente dedicata al fenomeno del mobbing. Tuttavia, diverse sono le norme che, tutelando la salute, la sicurezza ed il benessere dei lavoratori, consentono di attribuire rilievo alle condotte vessatorie che integrano il fenomeno del mobbing.Difatti, è possibile richiamare norme costituzionali – artt. 2, 3, 4, 32, 35, 41 della Costituzione –, norme del codice civile – in particolare artt. 2087, 2103, 1175, 1375, 2043, 2049 codice civile –, ma anche altre fonti, quali la Legge 300/1970 (c.d. Statuto dei Lavoratori), il D.Lgs. 198/2006 (c.d. Codice delle pari opportunità tra uomo e donna) e il D.Lgs. 81/2008 (c.d. Testo Unico per la sicurezza sul lavoro).3 - È previsto il risarcimento dei danni?È previsto il risarcimento dei danni per le vittime di mobbing, ma le modalità per ottenerlo variano a seconda del tipo di responsabilità che il lavoratore danneggiato intende far valere in giudizio. In effetti, le condotte di mobbing possono dar luogo a profili di responsabilità contrattuale o extracontrattuale.Si può parlare di responsabilità contrattuale nei casi in cui il danneggiato lamenti l’inadempimento di un’obbligazione preesistente. Nel caso del mobbing, quindi, ad essere inadempiuta è un’obbligazione che trova la propria fonte direttamente nella legge, ossia nell’art. 2087 c.c. che impone all’imprenditore – e al datore di lavoro in generale – di adottare tutte le misure più idonee a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.Nel far valere la responsabilità contrattuale del datore di lavoro, il lavoratore vittima di mobbing deve indicare e provare i comportamenti vessatori subìti, dando prova del danno patito e del relativo nesso causale. Non dovrà, invece, provare l’atteggiamento psicologico (dolo o colpa) di colui che, col suo inadempimento, ha provocato il danno. Difatti, in ambito contrattuale, l’ordinamento presume la colpa della parte inadempiente e spetterà a quest’ultima provare che l’inadempimento sia dovuto a fatti a lei non imputabili.Questa, per così dire, “agevolazione probatoria” si scontra, tuttavia, con la circostanza per cui uno degli elementi costitutivi del mobbing è proprio il dolo del mobber, ossia l’intento persecutorio (elemento psicologico che, in quanto tale, è difficile da dimostrare). Sul punto, in ogni caso, è intervenuta la giurisprudenza che, per non aggravare eccessivamente l’onere probatorio del lavoratore vittima di mobbing, ha chiarito che quest’ultimo possa limitarsi a fornire la prova dell’idoneità persecutoria della condotta subìta. Va detto, infine, che l’azione di responsabilità contrattuale è soggetta a un termine prescrizionale di dieci anni.Ricorre, invece, ipotesi di responsabilità extracontrattuale qualora un soggetto danneggi ingiustamente altro soggetto al quale non era legato da vincolo obbligatorio. Per quel che riguarda il mobbing, ciò accade quando la condotta vessatoria è posta in essere da colleghi posti allo stesso livello gerarchico della vittima o anche da suoi superiori, sebbene diversi dal datore di lavoro.Per intraprendere azione di responsabilità extracontrattuale, il lavoratore vittima di mobbing dovrà dar prova di tutti gli elementi previsti dall’articolo 2043 c.c., ossia il fatto dannoso, il danno patito, il nesso causale tra fatto e danno e l’elemento psicologico del dolo del danneggiante.L’azione di responsabilità extracontrattuale è soggetta a un termine di prescrizione di cinque anni e consente di invocare il risarcimento di tutti i danni che siano conseguenza immediata e diretta della condotta. 4 - Vi sono altri strumenti per difendersi?Anche in questo caso la risposta è affermativa.Difatti, oltre al risarcimento del danno, il lavoratore vittima di mobbing ha a disposizione altri strumenti di tutela con cui cercare di arginare le condotte vessatorie.Ad esempio, in primo luogo, considerato l’obbligo di protezione dell’incolumità dei lavoratori che l’art. 2087 c.c. pone a carico del datore di lavoro, una prima azione proponibile dal lavoratore vittima di mobbing è quella di adempimento, al fine di costringere il datore di lavoro ad adottare le misure adeguate di contrasto e prevenzione rispetto alle condotte mobbizzanti perpetrate da altri lavoratori sottoposti alla sua autorità.L’inadempimento dell’obbligo di protezione incombente sul datore di lavoro potrebbe, in base all’art. 1460 c.c., consentire al lavoratore di rifiutare l’esecuzione della propria prestazione lavorativa sino al momento in cui non siano adottate le misure in grado di arginare il fenomeno dannoso.L’ultimo, e certamente più radicale rimedio, è quello delle dimissioni per giusta causa, in seguito alle quali il lavoratore ha il diritto di percepire un’indennità sostitutiva del preavviso, vale a dire una somma di denaro pari alla retribuzione che sarebbe spettata al lavoratore dimissionario se avesse lavorato per l’intero periodo di tempo individuato come preavviso dal contratto collettivo in ipotesi di normali dimissioni volontarie.Editor: avv. Marco Mezzi
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15 feb. 2021 • tempo di lettura 3 minuti
Il grande protagonista di questo ultimo anno in campo giuslavoristico è senza dubbio il c.d. smart working (o lavoro agile). Da strumento resosi necessario per cercare di limitare il diffondersi della pandemia da Covid-19, tale modalità di svolgimento della prestazione lavorativa è ora al centro di numerosi dibattiti, nonché di proposte di riforma. Cerchiamo di approfondire meglio le caratteristiche principali di questo istituto. Cosa prevede la normativa in tema di smart working?Qual è stato l’impatto del Covid sullo smart working?Alcune questioni sollevate dalla repentina diffusione dello smart working.Le prospettive di riforma dello smart working.1 - Cosa prevede la normativa in tema di smart working?Nel nostro ordinamento lo smart working è regolato da una manciata di articoli (appena 6) posti all’interno della legge n. 81/2017. Si tratta di un istituto relativamente recente che è stato introdotto allo scopo di incrementare la competitività e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro.In via generale, lo smart working si caratterizza per la possibilità di rendere la prestazione lavorativa anche all’esterno dei locali aziendali senza una postazione fissa e per la sua implementazione è richiesta la stipulazione di un accordo individuale tra il lavoratore interessato e il datore di lavoro. Inoltre, è previsto che il datore di lavoro debba garantire la salute e la sicurezza del lavoratore che svolge la prestazione in modalità agile. A tal fine è tenuto a consegnargli, con cadenza almeno annuale, un’informativa scritta nella quale sono individuati i rischi generali e i rischi specifici connessi alla particolare modalità di esecuzione del rapporto. 2 - Qual è stato l’impatto del Covid sullo smart working?Dato il necessario incremento del ricorso al lavoro agile a causa della pandemia, il Governo ha ritenuto opportuno cercare di semplificare il ricorso a tale modalità di svolgimento della prestazione prevedendo che: si possa procedere allo smart working anche senza la stipulazione di un accordo scritto individuale; eil datore possa assolvere ai suoi obblighi di informativa in tema di salute e sicurezza anche in via telematica. Tali modalità semplificate di utilizzo dello smart working sono state via via prorogate e, ad oggi, è previsto che restino in vigore fino al 31 marzo 2021. 3 - Alcune questioni sollevate dalla repentina diffusione del lavoro agileCon il diffondersi dello smart working, si sono diffusi anche alcuni dubbi interpretativi relativi ai diritti dei lavoratori che svolgono la propria prestazione secondo tale modalità. In particolare ci si è chiesti se i dipendenti in smart working abbiano diritto ai buoni pasto, agli straordinari, a un contributo per le maggiori spese che si rendono necessarie (e.g. internet, luce, ecc.). Andiamo con ordine: in relazione al diritto ai buoni pasto, alcuni autori rispondo in senso affermativo richiamandosi al fatto che la legge prevede che il lavoratore in smart working ha diritto ad un trattamento economico e normativo non inferiore a quello complessivamente applicato nei confronti dei lavoratori che svolgono le medesime mansioni in azienda. Tuttavia, l’opinione maggioritaria è che un vero e proprio diritto dei lavoratori ai buoni pasto non sussista (non costituendo il buono pasto un elemento della retribuzione). Nulla vieta tuttavia ai datori di lavoro di riconoscerli;per quanto riguarda il diritto a vedersi retribuite le ore di lavoro straordinario, la risposta è invece affermativa. Tuttavia, di prassi i datori di lavoro prevedono che le ore di straordinario debbano essere preventivamente autorizzate dal datore stesso. In tal modo, solo se preventivamente autorizzate diventano retribuibili; è invece tendenzialmente negata qualsiasi forma di rimborso delle maggiori spese che lo smart worker si ritrovi a sostenere (salvo, ovviamente, diversa disposizione all’interno degli accordi individuali). 4 - Le prospettive di riforma dello smart workingLe molteplici discussioni alimentate dalla diffusione del lavoro agile con ogni probabilità troveranno una sintesi all’interno di un intervento normativo di riforma. Intervento di cui si sta già discutendo e che secondo le prime indiscrezioni potrebbe contenere, inter alia, un rafforzamento del diritto alla disconnessione e l’introduzione di un ruolo anche per i sindacati, il cui coinvolgimento ad oggi non è previsto. Editor: dott. Giovanni Fabris
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