Riders: lavoratori autonomi o subordinati?

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Pubblicato il 21 dic. 2020 · tempo di lettura 3 minuti

Riders: lavoratori autonomi o subordinati? | Egregio Avvocato
Ormai è chiaro a tutti chi siano i c.d. riders, quei ciclofattorini con un grande zaino cubico pieno di vivande che scorrazzano in bici per effettuare consegne a domicilio. Ciò che probabilmente è meno chiaro, e su cui si ritiene utile cercare di fare chiarezza in questa sede, è il tipo rapporto di lavoro che di fatto si instaura tra la piattaforma che gestisce il servizio di delivery (e.g. Foodora, Glovo, Uber Eats, per citarne alcune) e i riders che si registrano alla stessa per accedere alle richieste di consegna degli utenti.  



  1. Rapporto di lavoro autonomo o subordinato: esiste una risposta?
  2. Come si è evoluta la giurisprudenza sul tema?
  3. La recente sentenza del Tribunale di Palermo
  4. Le tutele: obiettivo raggiunto?


1 - Rapporto di lavoro autonomo o subordinato: esiste una risposta?

Dal momento che molto dipende da come si atteggia concretamente il rapporto tra piattaforma e riders nei singoli casi di specie, non è possibile identificare una risposta univoca e valida per tutte le circostanze. Tuttavia, dando un’occhiata al quadro giurisprudenziale e normativo che si sta formando in Italia sul tema, è sicuramente riscontrabile una crescente attenzione nei confronti delle esigenze di tutela dei riders


2 - Come si è evoluta la giurisprudenza sul tema?

In un primo momento la giurisprudenza si è mossa nel senso di non ritenere applicabile ai riders la disciplina tipica del rapporto di lavoro subordinato. Secondo il Tribunali di Torino e Milano, il rapporto di lavoro dei riders non solo non può essere riconosciuto come rapporto di lavoro subordinato in senso classico (ex art. 2094 c.c.), ma nemmeno come rapporto di collaborazione prevalentemente personale e continuativa (tipologia di rapporto per il quale il Jobs Act prevede che si applichi la medesima disciplina del rapporto di lavoro subordinato). In concreto tali pronunce hanno ritenuto che la libertà dei riders di decidere se e quando lavorare comprometta a monte il potere organizzativo e direttivo della piattaforma nei loro confronti, rappresentando così un elemento decisivo a favore dell’autonomia del rapporto. 


Successivamente, tale approccio è stato parzialmente sconfessato, dal momento che alcune pronunce sono arrivate ad affermare che la libertà dei riders di decidere se e quando lavorare sia effettivamente riscontrabile solo nella fase genetica del rapporto mentre, nella fase esecutiva, i riders sarebbero pienamente inseriti nell’organizzazione della piattaforma, che stabilisce in maniera più o meno penetrante le modalità della prestazione. Ciò ha portato i giudici a concludere che, sebbene i riders siano da considerarsi tecnicamente autonomi, date le peculiarità che caratterizzano il concreto atteggiarsi del loro rapporto di lavoro, debbano rientrare nell’ambito applicativo del Jobs Act (in particolare art. 2 del d.lgs. 81/2015), con la conseguente applicabilità della disciplina del rapporto di lavoro subordinato.


Quest’ultimo orientamento risultava del resto coerente con l’intervento normativo del 2019 il quale, da un lato, ha espressamente previsto che anche le prestazioni di lavoro organizzate mediante piattaforme digitali rientrano nell’ambito dell’art. 2 del d.lgs. 81/2015 e, dall’altro, ha introdotto specifiche disposizioni volte a regolare e tutelare specificamente la figura dei riders (e.g. in tema di compenso, copertura assicurativa ecc.). 


3 - La recente sentenza del Tribunale di Palermo

Se il punto di arrivo di cui sopra, di fatto condiviso sia dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione che dal legislatore, sembrava poter chiudere la questione, una recentissima sentenza del Tribunale di Palermo è andata addirittura oltre e, tenuto conto di tutte le circostanze del caso concreto, è arrivata a riconoscere il rider ricorrente non come collaboratore continuativo della piattaforma che presta la propria opera in maniera prevalentemente personale, ma addirittura come lavoratore subordinato ai sensi dell’art. 2094 c.c. 


4 - Le tutele: obiettivo raggiunto?

Pare quindi potersi affermare che i riders siano riusciti ad ottenere quelle tutele che inizialmente erano loro negate. Infatti, o per il tramite delle modifiche al Jobs Act o per il tramite di un accertamento in concreto che porti a qualificarli in tutto e per tutto come lavoratori dipendenti, agli stessi è stato riconosciuto il diritto a vedersi applicata la disciplina del rapporto di lavoro subordinato.   


Editor: dott. Giovanni Fabris 

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Le categorie protette: analisi della Legge n. 68/1999 e dei suoi recenti aggiornamenti

10 gen. 2022 tempo di lettura 5 minuti

La Costituzione italiana prevede all’articolo 38, comma III che “gli inabili ed i minorati hanno diritto all’educazione e all’avviamento professionale”. Questa disposizione, analizzata insieme a quanto previsto dall’articolo 2 della stessa Carta fondamentale, ha spinto il legislatore a dare concreta attuazione a quell’obbligo etico e sociale assunto dallo Stato nei confronti di quelle che, col tempo, sono state definite “categorie protette”.Cosa prevede la Legge n. 68/1999?Quali sono i soggetti beneficiari?Come avviene l’accertamento dell’invalidità?Gli obblighi per i datori di lavoro e le sanzioni, anche alla luce delle recenti novità1 - Cosa prevede la Legge n. 68/1999?Con la Legge n. 482/1968 fu introdotto il c.d. collocamento obbligatorio, con il quale i datori di lavoro furono, per la prima volta, obbligati ad assumere un certo numero di persone che, a causa delle particolari condizioni psico – fisiche nelle quali si trovavano, difficilmente avrebbero trovato inserimento nel mondo del lavoro.Tuttavia, nel 1999 si optò a una nuova disciplina che puntasse, effettivamente, all’inclusione delle persone diversamente abili. Infatti, con la Legge n. 68/1999 si riforma il collocamento obbligatorio, introducendo il c.d. collocamento mirato, ossia quella serie di strumenti tecnici e di supporto, che permettono di valutare adeguatamente le persone in base alle loro capacità lavorative, così da inserire nel posto adatto, attraverso forme di sostegno, analisi del lavoro, soluzione dei problemi connessi agli ambienti lavorativi.Ma, nel dettaglio, cosa prevede la Legge n. 68/1999?La legge in esame prevede che il legislatore con condizioni psico – fisiche particolari sia collocato nell’occupazione più idonea e, di conseguenza, più proficua sia per sé sia per chi lo assume. Difatti, la finalità di questo intervento legislativo è la promozione e l’integrazione lavorativa delle persone disabili nel mondo del lavoro attraverso servizi di sostegno e di collocamento.2 - Quali sono i soggetti beneficiari?In concreto, chi sono i soggetti destinatari della tutela prevista dalla Legge in esame?L’articolo 1 della Legge n. 68/1999 prevede che beneficiari sono: a) le persone in età lavorativa affette da minorazioni fisiche, psichiche o sensoriali ed i portatori di handicap intellettivo che presentino una riduzione della capacità lavorativa superiore al 45%; b) le persone invalide del lavoro con un grado di invalidità superiore al 33% accertate dall’INAIL; c) le persone non vedenti; d) le persone sordomute; e) le persone invalide di guerra, invalide civili di guerra e invalide per un servizio con menomazioni annesse alle tabelle di cui al testo unico in materia di pensioni di guerra.3 - Come avviene l’accertamento dell’invalidità? Tutti coloro i quali presentino i requisiti previsti dalla legge in esame possono accedere al già citato collocamento mirato, iscrivendosi negli appositi elenchi provinciali tenuti dai centri per l’impiego. Ovviamente, ai fini dell’iscrizione è necessario possedere una certificazione attestante l’esistenza, in capo al soggetto, del requisito sanitario che sancisce “l’appartenenza” a una delle categorie protette menzionate dalla Legge n. 68/1999.Ogni menomazione, infatti, va accertata tramite la detta certificazione che viene rilasciata, a seconda dei casi, dall’INPS o dall’INAIL, anche se nella maggior parte dei casi, i verbali sono rilasciati da apposite commissioni sanitarie delle singole ASL territorialmente competenti.Nello specifico, in primis, il medico curante deve rilasciare il c.d. certificato introduttivo che attesta l’infermità riscontrata, per poi essere inviato, in via telematica, all’INPS. Successivamente, l’interessato dovrà procedere alla richiesta di visita e, nei trenta giorni successivi, sarà convocato per effettuare la visita in questione, la quale si effettua presso l’ASL dinanzi a una commissione di medici ASL e un medico INPS.Una volta effettuata la visita, la commissione sanitaria dovrà predisporre un verbale, attestando la percentuale di invalidità e la c.d. scheda funzionale, in cui si annotano abilità, capacità lavorative, competenze, utili a valutare le mansioni più idonee per il soggetto interessato.Il soggetto in possesso del verbale della commissione medica attestante l’invalidità deve, infine, recarsi al centro per l’impiego territorialmente competente per potersi iscrivere all’elenco delle categorie protette.4 - Gli obblighi per i datori di lavoro e le sanzioni, anche alla luce delle recenti novità Il quadro normativo previsto dalla Legge n. 68/1999 ha mantenuto, per i datori di lavoro, l’obbligo di riservare una quota delle assunzioni ai disabili. Difatti, l’articolo 3 della detta Legge parla di “quota di riserva”, vale a dire la quota numerica di soggetti che appartengono alle categorie protette che il datore di lavoro è tenuto ad assumere.Questa quota varia a seconda del numero di lavoratori occupati nell’azienda. In particolare: a) con oltre 50 dipendenti, la quota di riserva è pari al 7% dei lavoratori occupati; b) da 36 a 50 dipendenti, la quota è pari a 2 lavoratori disabili; c) da 15 a 35 dipendenti, la quota è di 1 lavoratore disabile.Per tutti coloro i quali non adempiono gli obblighi di assunzione, sono previste, dall’articolo 15 della Legge 68/1999, sanzioni amministrative. In ottemperanza all’adeguamento periodico, recentemente il Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, Andrea Orlando, ha firmato due provvedimenti in materia di diritto al lavoro dei disabili. In particolare, i due decreti riguardano gli articoli 5 e 15 della Legge n. 68/1999.Con il primo provvedimento si è adeguato da € 30,64 a € 39,21 l’importo del contributo esonerativo dovuto dai datori di lavoro privati e dagli enti pubblici economici in presenza di speciali condizioni della loro attività per essere, parzialmente, esonerati dall’obbligo di assumere l’intera percentuale di lavoratori con disabilità prescritta.Il secondo provvedimento, invece, aumenta le sanzioni amministrative dovute dai datori di lavoro, pubblici e privati, che non rispettano gli obblighi informativi. Si tratta, in particolare, di quelle aziende con più di 15 dipendenti che non inviano un prospetto informativo agli uffici competenti con il numero complessivo dei lavoratori dipendenti per calcolare la quota riservata ai lavoratori disabili. Tale obbligo scatta automaticamente dall’assunzione del quindicesimo dipendente e l’azienda avrà 60 giorni per inoltrare il prospetto.Laddove non si proceda a tale adempimento, il datore di lavoro è soggetto ad una sanzione amministrativa che, con l’entrata in vigore del nuovo provvedimento ministeriale a partire dal 1° gennaio 2022, sarà incrementato da € 635,11 a € 702,43; sanzione che, peraltro, è maggiorata per ogni giorno di ritardo e il cui importo passa da € 30,76 a € 34,02.Qualora non si proceda a questo adempimento, il datore di lavoro è soggetto ad una sanzione amministrativa che, con l’entrata in vigore del provvedimento citato, verrà incrementata da 635,11 a 702,43 euro.Sanzione che, peraltro, viene maggiorata per ogni giorno di ritardo. L’importo della maggiorazione, come anticipato, passa da 30,76 a 34,02 euro.

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Diritto al lavoro e tutela della genitorialità: il congedo parentale

31 gen. 2022 tempo di lettura 5 minuti

La tutela della madre lavoratrice è un principio fondamentale sancito dall’articolo 37 della nostra Costituzione.In particolare, l’ordinamento attua questo principio proteggendo la salute della lavoratrice e riconoscendo il diritto del bambino a un’adeguata assistenza.Per ottemperare all’evoluzione socio – culturale ma anche giurisprudenziale e legislativa, la disciplina della tutela della genitorialità correlata al diritto del lavoro è mutata nel corso del tempo affinché fosse garantito concretamente l’effettivo svolgimento del ruolo di entrambi i genitori – e non più esclusivamente della madre – nella cura e nell’assistenza dei figli.La tutela della genitorialità viene garantita attraverso svariate disposizioni. È possibile menzionare il divieto di licenziamento dall’inizio del periodo di gestazione fino al compimento di un anno di età del bambino, il divieto di adibire la lavoratrice durante la gestazione e sino a sette mesi dopo il parto al trasporto e al sollevamento di pesi, nonché a lavori pericolosi, faticosi ed insalubri, il divieto al lavoro notturno sempre dall’accertamento dello stato di gravidanza sino al compimento di un anno di età del bambino, e così via.Uno degli aspetti che, invece, concerne anche la tutela della genitorialità del padre lavoratore è il c.d. congedo parentale. Come funziona il congedo parentale? A chi spetta e quanto dura il congedo parentale?Congedo parentale e indennitàCome occorre presentare la domanda?Congedo parentale ed emergenza Covid.1 - Come funziona il congedo parentale?Il congedo parentale è un periodo di astensione facoltativa dal lavoro concesso ai genitori per l’assistenza e la cura del figlio nei suoi primi anni di vita nonché, ovviamente, per soddisfare i bisogni affettivi e relazionali.Ma come funziona il congedo parentale?Il congedo parentale spetta ai genitori naturali, in costanza di rapporto lavorativo, entro i primi dodici anni di vita del bambino e per un periodo complessivo tra i due genitori che non superi i dieci mesi. Questi mesi salgono a undici laddove il padre lavoratore si astenga dal lavoro per un periodo, continuativo o frazionato, di almeno tre mesi.Nell’ipotesi in cui il rapporto di lavoro cessi all’inizio o durante il periodo di congedo, il diritto allo stesso viene, ovviamente, meno dalla data di interruzione del lavoro.2 - A chi spetta e quanto dura il congedo parentale?Considerata la definizione data pocanzi, a chi spetta e quanto dura effettivamente il diritto di astenersi dal lavoro?Innanzitutto, il congedo parentale spetta alla madre lavoratrice dipendente per un periodo, continuativo o frazionato, di massimo sei mesi.In secondo luogo, spetta al padre lavoratore dipendente per un periodo, continuativo o frazionato di massimo sei mesi, che possono diventare sette nel caso di astensione dal lavoro per un periodo, sempre continuativo o frazionato, di almeno tre mesi. Occorre aggiungere, altresì, che al padre lavoratore dipendente spetta anche durante il periodo di astensione obbligatoria della madre e anche nell’ipotesi in cui la stessa non lavori.Il congedo parentale spetta, anche, al genitore solo – padre o madre che sia – per il periodo, frazionato o continuativo, di massimo dieci mesi. Ai lavoratori dipendenti che siano genitori adottivi o affidatari, il congedo spetta con le medesime modalità dei genitori naturali e, quindi, entro i primi dodici anni dall’ingresso del minore nella famiglia, indipendentemente dall’età del bambino all’atto dell’adozione o dell’affidamento e, in ogni caso, non oltre il compimento della sua maggiore età.La Legge n. 228 del 2012 ha introdotto la possibilità di frazionare a ore il congedo parentale rinviando, poi, alla contrattazione collettiva di settore il compito di stabilire le modalità di fruizione del congedo su base oraria e l’equiparazione di un dato monte ore alla singola giornata lavorativa.3 - Congedo parentale e indennitàDurante la fruizione del congedo parentale il lavoratore non percepisce la vera e propria retribuzione bensì un’indennità sostitutiva, erogata dall’INPS, che viene calcolata in misura percentuale alla retribuzione.In particolare, occorre dire che la retribuzione corrisposta durante i periodi di congedo parentale è legata all’età del figlio per cui tali periodi sono richiesti.Sino a sei anni di età, spetta il 30% della retribuzione media giornaliera calcolata sulla base della retribuzione del mese precedente l’inizio del congedo. Dai sei agli otto anni, spetta il 30% solo se il lavoratore versi in uno stato di disagio economico e che lo stesso sia documentato. Infine, dagli otto ai dodici anni non è previsto alcuna retribuzione. 4 - Come occorre presentare la domanda?La domanda per i periodi di congedo deve essere effettuata telematicamente tramite il portale web dell’INPS, accedendovi con SPID, Carta d’Identità Elettronica, Carta Nazionale dei Servizi o PIN rilasciato dallo stesso istituto.In alternativa, la domanda può essere effettuata anche tramite i patronati o usufruendo del servizio call center fornito dall’INPS stessa.5 - Congedo parentale ed emergenza Covid.La crisi epidemiologica da Covid 19 ha reso necessario potenziare lo strumento del congedo parentale, concedendo più tempo ai genitori lavoratori da dedicare alla cura e all’assistenza dei figli e incrementando l’indennità erogata dall’INPS.Più nel dettaglio, con il decreto n. 30 del 2021, il Governo ha istituito il c.d. congedo parentale COVID, in aggiunta all’ordinario congedo parentale.Tale congedo, per così dire, straordinario può essere richiesto solamente nell’ipotesi in cui non sia possibile prestare la propria attività lavorativa “da remoto” (c.d. smart working) e, pertanto, in caso di infezione da Covid 19 o quarantena del figlio disposta dall’ASL, per tutto il periodo di assenza da scuola, nonché in caso di sospensione dell’attività didattica in presenza del figlio, per tutta la durata, o anche solo per una parte, della stessa.In tali ipotesi, si può usufruire di un congedo al 50% della retribuzione e coperti da contribuzione figurativa, laddove i figli abbiano meno di quattordici anni, oppure di un congedo senza retribuzione e contribuzione figurativa, se i figli abbiano un’età compresa tra i quattordici e i sedici anni. In tale ultima ipotesi, ovviamente, il genitore che usufruisce del congedo ha il diritto alla conservazione del posto di lavoro.

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Il patto di non concorrenza: di cosa si tratta?

17 mag. 2021 tempo di lettura 5 minuti

Il patto di non concorrenza previsto dall’art. 2125 c.c. accompagna spesso contratti di lavoro subordinato. Vediamo di cosa si tratta e quali sono i requisiti previsti ai fini della sua validitàIl patto di non concorrenza: di cosa si tratta? Ricostruzione dell’istitutoIl corrispettivo: l’ultima pronuncia della Cassazione 1 - Il patto di non concorrenza: di che si tratta? Ricostruzione dell’istitutoL’art. 2125 c.c. definisce patto di non concorrenza il patto “con il quale si limita lo svolgimento dell'attività del prestatore di lavoro, per il tempo successivo alla cessazione del contratto”. Ai fini della sua validità, la disposizione in questione prevede che il predetto patto – accessorio al contratto di lavoro subordinato – sia redatto in forma scritta e contenga un corrispettivo a favore del prestatore di lavoro. Per quanto riguarda, invece, il vincolo previsto nel patto di non svolgere attività concorrenziale una volta cessato il rapporto di lavoro, è necessario che esso sia contenuto entro specificati i limiti di oggetto, di luogo e di tempo. Si tratta, dunque, di un contratto a titolo oneroso ed a prestazioni corrispettive, giacché, come anticipato, il prestatore di lavoro si impegna dopo la cessazione del rapporto di lavoro, a fronte di un corrispettivo, a non prestare attività concorrenziale in favore di altri soggetti. Sul piano degli interessi meritevoli di tutela regolati dal patto, secondo consolidata giurisprudenza, le clausole di non concorrenza sono finalizzate da un lato, a salvaguardare l’imprenditore da qualsiasi esportazione presso imprese concorrenti del patrimonio immateriale dell’azienda, trattandosi di un bene che assicura la sua resistenza sul mercato ed il suo successo rispetto alle aziende concorrenti, e dall’altro, a tutelare il lavoratore subordinato, affinché le dette clausole non comprimano eccessivamente le possibilità di poter indirizzare la propria attività lavorativa verso altre occupazioni, ritenute più convenienti (da ultimo, Cass. Sez. lav. n. 9790/2020).Il patto può essere inserito direttamente nel contratto di lavoro o, in alternativa, essere contenuto in una lettera separata, ciò non rileva ai fini della validità del patto medesimo, essendo richiesto unicamente che la sua redazione avvenga in forma scritta, con la conseguenza che qualsivoglia intesa orale diretta a limitare la futura collocazione del lavoratore sul mercato, è radicalmente nulla per difetto di forma. Altro elemento imprescindibile ai fini della validità del patto è il suo oggetto: infatti, nonostante la generale formulazione della norma civilistica, si ritiene pacificamente che il patto di non concorrenza, seppur possa comprendere anche attività non propriamente rientranti nelle mansioni svolte dal dipendente, non debba comunque essere di “ampiezza tale da comprimere la esplicazione concreta della professionalità del lavoratore in limiti che compromettano ogni potenzialità reddituale” (Cass. Sez. lav., sent. 13282/2003). L’oggetto, pertanto, può anche essere esteso al di là delle mansioni espletate dal dipendente che ha sottoscritto il patto, ma il sacrificio richiesto a quest’ultimo non può essere tale da impedirgli di immettersi nuovamente sul mercato del lavoro una volta cessato il rapporto lavorativo con il precedente datore. Rispetto alle modalità di pagamento l’art. 2125 c.c. non prevede una apposita disciplina, ed infatti, parte della giurisprudenza ritiene che il corrispettivo possa essere corrisposto sia al termine del rapporto di lavoro ma anche in costanza di rapporto. In relazione a tale ultima modalità di pagamento, è stato ritenuto che la stessa non inficia la validità del patto e che il corrispettivo possa anche essere solo determinabile, poiché l’art. 2125 c.c. lascia alle parti ampia autonomia nella determinazione delle modalità di pagamento del corrispettivo, cosicché l’erogazione del corrispettivo potrà essere validamente pattuita sotto forma di percentuale sulla retribuzione o di somma da corrispondersi in costanza di rapporto (Trib. Milano, sent. 21 luglio 2005, in tal senso si è espresso anche il Tribunale di Pescara con la recente sentenza 10 luglio 2020, n. 267). In relazione a tale aspetto, si è tuttavia registrato anche un orientamento contrario secondo cui il pagamento del corrispettivo del patto in costanza di rapporto violerebbe l’art. 2125 c.c., introducendo una “variabile legata alla durata del rapporto stesso”, con conseguente aleatorietà del patto stesso. 2 - Il corrispettivo: l’ultima pronuncia della Cassazione Avuto proprio riguardo al corrispettivo, si è pronunciata di recente la Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con la sentenza n. 5540 del 1° marzo 2021. Con tale pronuncia, la Cassazione ha stabilito che la nullità per indeterminatezza o indeterminabilità del corrispettivo (quale vizio del requisito di cui all’art. 1346 c.c.) e la nullità per violazione dell’art. 2125 c.c., laddove il corrispettivo “non è pattuito” (ovvero sia simbolico, manifestamente iniquo o sproporzionato), operano su piani giuridicamente distinti ed ognuno di essi richiede una specifica motivazione. Pertanto – stabilisce l’ordinanza – “al fine di valutare la validità del patto di non concorrenza, in riferimento al corrispettivo dovuto, si richiede, innanzitutto, che, in quanto elemento distinto dalla retribuzione, lo stesso possieda i requisiti previsti in generale per l'oggetto della prestazione dall'art. 1346 c.c.; se determinato o determinabile, va verificato, ai sensi dell'art. 2125 c.c., che il compenso pattuito non sia meramente simbolico o manifestamente iniquo o sproporzionato, in rapporto al sacrificio richiesto al lavoratore e alla riduzione delle sue capacità di guadagno, indipendentemente dall'utilità che il comportamento richiesto rappresenta per il datore di lavoro e dal suo ipotetico valore di mercato, conseguendo comunque la nullità dell'intero patto alla eventuale sproporzione economica del regolamento negoziale”. In altri termini, la Cassazione ha chiarito che la valutazione circa la congruità del corrispettivo deve essere ricondotta unicamente all’alveolo dell’art. 2125 c.c. non dovendosi, quindi, confondere tale giudizio con la previsione di cui all’art. 1346 c.c. relativa alla determinatezza ovvero determinabilità riferibile al corrispettivo, giacché altrimenti si rischierebbe di dar vita ad una “sovrapposizione indebita che genera incertezza nell’iter logico seguito per il convincimento del giudicante, precludendo un effettivo controllo sull’esattezza e sulla logicità del ragionamento”. Editor: avv. Francesca Retus

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Il divieto di discriminazione in materia di lavoro (art. 37 Cost.)

27 gen. 2022 tempo di lettura 1 minuti

La parità in materia di lavoro e l’abolizione di ogni forma di discriminazione è stata prevista dalla Costituzione espressamente in relazione alla donna ed al minore, considerati da sempre soggetti “deboli” del rapporto di lavoro.Infatti, per eliminare ogni disparità di trattamento tra uomini e donne, venne introdotta nel nostro ordinamento la L. n. 903/1977 relativa alla parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro.La normiva predetta oltre ad aver previsto il divieto di qualsiasi discriminazione fondata sul sesso con riferimento all’accesso al lavoro, ha introdotto altre regole tra cui: la parità di retribuzione; parità di progressione della carriera e la parità di diritti.Nonostante l’emanazione della predetta legge, la parità anche se formalmente affermata non veniva attuata in concreto. Pertanto, al fine di rimuovere gli ostacoli che, di fatto, impedivano la realizzazione di una sostanziale ed effettiva parità, è stata emanata la L. n. 125/1991.Le citate disposizioni, poi, sono confluite nel “Codice delle pari opportunità tra uomo e donna” che prevede misure volte ad eliminare ogni discriminazione basata sul sesso. In particolare, l’art. 27 del Codice vieta qualsiasi discriminazione inerenti l’accesso al lavoro, prodotte in qualsiasi forma.Con l’adesione all’Unione europea è stato inoltre recepito nel nostro ordinamento il principio di libera circolazione dei lavoratori, con conseguente abolizione di ogni discriminazione fondata sulla nazionalità tra i lavoratori degli Stati membri sia per quanto riguarda l’impiego, la retribuzione e le altre condizioni di lavoro.

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