Avv. Marco Mezzi
La Costituzione italiana prevede all’articolo 38, comma III che “gli inabili ed i minorati hanno diritto all’educazione e all’avviamento professionale”. Questa disposizione, analizzata insieme a quanto previsto dall’articolo 2 della stessa Carta fondamentale, ha spinto il legislatore a dare concreta attuazione a quell’obbligo etico e sociale assunto dallo Stato nei confronti di quelle che, col tempo, sono state definite “categorie protette”.
1 - Cosa prevede la Legge n. 68/1999?
Con la Legge n. 482/1968 fu introdotto il c.d. collocamento obbligatorio, con il quale i datori di lavoro furono, per la prima volta, obbligati ad assumere un certo numero di persone che, a causa delle particolari condizioni psico – fisiche nelle quali si trovavano, difficilmente avrebbero trovato inserimento nel mondo del lavoro.
Tuttavia, nel 1999 si optò a una nuova disciplina che puntasse, effettivamente, all’inclusione delle persone diversamente abili. Infatti, con la Legge n. 68/1999 si riforma il collocamento obbligatorio, introducendo il c.d. collocamento mirato, ossia quella serie di strumenti tecnici e di supporto, che permettono di valutare adeguatamente le persone in base alle loro capacità lavorative, così da inserire nel posto adatto, attraverso forme di sostegno, analisi del lavoro, soluzione dei problemi connessi agli ambienti lavorativi.
Ma, nel dettaglio, cosa prevede la Legge n. 68/1999?
La legge in esame prevede che il legislatore con condizioni psico – fisiche particolari sia collocato nell’occupazione più idonea e, di conseguenza, più proficua sia per sé sia per chi lo assume. Difatti, la finalità di questo intervento legislativo è la promozione e l’integrazione lavorativa delle persone disabili nel mondo del lavoro attraverso servizi di sostegno e di collocamento.
2 - Quali sono i soggetti beneficiari?
In concreto, chi sono i soggetti destinatari della tutela prevista dalla Legge in esame?
L’articolo 1 della Legge n. 68/1999 prevede che beneficiari sono: a) le persone in età lavorativa affette da minorazioni fisiche, psichiche o sensoriali ed i portatori di handicap intellettivo che presentino una riduzione della capacità lavorativa superiore al 45%; b) le persone invalide del lavoro con un grado di invalidità superiore al 33% accertate dall’INAIL; c) le persone non vedenti; d) le persone sordomute; e) le persone invalide di guerra, invalide civili di guerra e invalide per un servizio con menomazioni annesse alle tabelle di cui al testo unico in materia di pensioni di guerra.
3 - Come avviene l’accertamento dell’invalidità?
Tutti coloro i quali presentino i requisiti previsti dalla legge in esame possono accedere al già citato collocamento mirato, iscrivendosi negli appositi elenchi provinciali tenuti dai centri per l’impiego.
Ovviamente, ai fini dell’iscrizione è necessario possedere una certificazione attestante l’esistenza, in capo al soggetto, del requisito sanitario che sancisce “l’appartenenza” a una delle categorie protette menzionate dalla Legge n. 68/1999.
Ogni menomazione, infatti, va accertata tramite la detta certificazione che viene rilasciata, a seconda dei casi, dall’INPS o dall’INAIL, anche se nella maggior parte dei casi, i verbali sono rilasciati da apposite commissioni sanitarie delle singole ASL territorialmente competenti.
Nello specifico, in primis, il medico curante deve rilasciare il c.d. certificato introduttivo che attesta l’infermità riscontrata, per poi essere inviato, in via telematica, all’INPS. Successivamente, l’interessato dovrà procedere alla richiesta di visita e, nei trenta giorni successivi, sarà convocato per effettuare la visita in questione, la quale si effettua presso l’ASL dinanzi a una commissione di medici ASL e un medico INPS.
Una volta effettuata la visita, la commissione sanitaria dovrà predisporre un verbale, attestando la percentuale di invalidità e la c.d. scheda funzionale, in cui si annotano abilità, capacità lavorative, competenze, utili a valutare le mansioni più idonee per il soggetto interessato.
Il soggetto in possesso del verbale della commissione medica attestante l’invalidità deve, infine, recarsi al centro per l’impiego territorialmente competente per potersi iscrivere all’elenco delle categorie protette.
4 - Gli obblighi per i datori di lavoro e le sanzioni, anche alla luce delle recenti novità
Il quadro normativo previsto dalla Legge n. 68/1999 ha mantenuto, per i datori di lavoro, l’obbligo di riservare una quota delle assunzioni ai disabili.
Difatti, l’articolo 3 della detta Legge parla di “quota di riserva”, vale a dire la quota numerica di soggetti che appartengono alle categorie protette che il datore di lavoro è tenuto ad assumere.
Questa quota varia a seconda del numero di lavoratori occupati nell’azienda. In particolare: a) con oltre 50 dipendenti, la quota di riserva è pari al 7% dei lavoratori occupati; b) da 36 a 50 dipendenti, la quota è pari a 2 lavoratori disabili; c) da 15 a 35 dipendenti, la quota è di 1 lavoratore disabile.
Per tutti coloro i quali non adempiono gli obblighi di assunzione, sono previste, dall’articolo 15 della Legge 68/1999, sanzioni amministrative.
In ottemperanza all’adeguamento periodico, recentemente il Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, Andrea Orlando, ha firmato due provvedimenti in materia di diritto al lavoro dei disabili. In particolare, i due decreti riguardano gli articoli 5 e 15 della Legge n. 68/1999.
Con il primo provvedimento si è adeguato da € 30,64 a € 39,21 l’importo del contributo esonerativo dovuto dai datori di lavoro privati e dagli enti pubblici economici in presenza di speciali condizioni della loro attività per essere, parzialmente, esonerati dall’obbligo di assumere l’intera percentuale di lavoratori con disabilità prescritta.
Il secondo provvedimento, invece, aumenta le sanzioni amministrative dovute dai datori di lavoro, pubblici e privati, che non rispettano gli obblighi informativi. Si tratta, in particolare, di quelle aziende con più di 15 dipendenti che non inviano un prospetto informativo agli uffici competenti con il numero complessivo dei lavoratori dipendenti per calcolare la quota riservata ai lavoratori disabili. Tale obbligo scatta automaticamente dall’assunzione del quindicesimo dipendente e l’azienda avrà 60 giorni per inoltrare il prospetto.
Laddove non si proceda a tale adempimento, il datore di lavoro è soggetto ad una sanzione amministrativa che, con l’entrata in vigore del nuovo provvedimento ministeriale a partire dal 1° gennaio 2022, sarà incrementato da € 635,11 a € 702,43; sanzione che, peraltro, è maggiorata per ogni giorno di ritardo e il cui importo passa da € 30,76 a € 34,02.
Qualora non si proceda a questo adempimento, il datore di lavoro è soggetto ad una sanzione amministrativa che, con l’entrata in vigore del provvedimento citato, verrà incrementata da 635,11 a 702,43 euro.
Sanzione che, peraltro, viene maggiorata per ogni giorno di ritardo. L’importo della maggiorazione, come anticipato, passa da 30,76 a 34,02 euro.
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31 gen. 2022 • tempo di lettura 5 minuti
La tutela della madre lavoratrice è un principio fondamentale sancito dall’articolo 37 della nostra Costituzione.In particolare, l’ordinamento attua questo principio proteggendo la salute della lavoratrice e riconoscendo il diritto del bambino a un’adeguata assistenza.Per ottemperare all’evoluzione socio – culturale ma anche giurisprudenziale e legislativa, la disciplina della tutela della genitorialità correlata al diritto del lavoro è mutata nel corso del tempo affinché fosse garantito concretamente l’effettivo svolgimento del ruolo di entrambi i genitori – e non più esclusivamente della madre – nella cura e nell’assistenza dei figli.La tutela della genitorialità viene garantita attraverso svariate disposizioni. È possibile menzionare il divieto di licenziamento dall’inizio del periodo di gestazione fino al compimento di un anno di età del bambino, il divieto di adibire la lavoratrice durante la gestazione e sino a sette mesi dopo il parto al trasporto e al sollevamento di pesi, nonché a lavori pericolosi, faticosi ed insalubri, il divieto al lavoro notturno sempre dall’accertamento dello stato di gravidanza sino al compimento di un anno di età del bambino, e così via.Uno degli aspetti che, invece, concerne anche la tutela della genitorialità del padre lavoratore è il c.d. congedo parentale. Come funziona il congedo parentale? A chi spetta e quanto dura il congedo parentale?Congedo parentale e indennitàCome occorre presentare la domanda?Congedo parentale ed emergenza Covid.1 - Come funziona il congedo parentale?Il congedo parentale è un periodo di astensione facoltativa dal lavoro concesso ai genitori per l’assistenza e la cura del figlio nei suoi primi anni di vita nonché, ovviamente, per soddisfare i bisogni affettivi e relazionali.Ma come funziona il congedo parentale?Il congedo parentale spetta ai genitori naturali, in costanza di rapporto lavorativo, entro i primi dodici anni di vita del bambino e per un periodo complessivo tra i due genitori che non superi i dieci mesi. Questi mesi salgono a undici laddove il padre lavoratore si astenga dal lavoro per un periodo, continuativo o frazionato, di almeno tre mesi.Nell’ipotesi in cui il rapporto di lavoro cessi all’inizio o durante il periodo di congedo, il diritto allo stesso viene, ovviamente, meno dalla data di interruzione del lavoro.2 - A chi spetta e quanto dura il congedo parentale?Considerata la definizione data pocanzi, a chi spetta e quanto dura effettivamente il diritto di astenersi dal lavoro?Innanzitutto, il congedo parentale spetta alla madre lavoratrice dipendente per un periodo, continuativo o frazionato, di massimo sei mesi.In secondo luogo, spetta al padre lavoratore dipendente per un periodo, continuativo o frazionato di massimo sei mesi, che possono diventare sette nel caso di astensione dal lavoro per un periodo, sempre continuativo o frazionato, di almeno tre mesi. Occorre aggiungere, altresì, che al padre lavoratore dipendente spetta anche durante il periodo di astensione obbligatoria della madre e anche nell’ipotesi in cui la stessa non lavori.Il congedo parentale spetta, anche, al genitore solo – padre o madre che sia – per il periodo, frazionato o continuativo, di massimo dieci mesi. Ai lavoratori dipendenti che siano genitori adottivi o affidatari, il congedo spetta con le medesime modalità dei genitori naturali e, quindi, entro i primi dodici anni dall’ingresso del minore nella famiglia, indipendentemente dall’età del bambino all’atto dell’adozione o dell’affidamento e, in ogni caso, non oltre il compimento della sua maggiore età.La Legge n. 228 del 2012 ha introdotto la possibilità di frazionare a ore il congedo parentale rinviando, poi, alla contrattazione collettiva di settore il compito di stabilire le modalità di fruizione del congedo su base oraria e l’equiparazione di un dato monte ore alla singola giornata lavorativa.3 - Congedo parentale e indennitàDurante la fruizione del congedo parentale il lavoratore non percepisce la vera e propria retribuzione bensì un’indennità sostitutiva, erogata dall’INPS, che viene calcolata in misura percentuale alla retribuzione.In particolare, occorre dire che la retribuzione corrisposta durante i periodi di congedo parentale è legata all’età del figlio per cui tali periodi sono richiesti.Sino a sei anni di età, spetta il 30% della retribuzione media giornaliera calcolata sulla base della retribuzione del mese precedente l’inizio del congedo. Dai sei agli otto anni, spetta il 30% solo se il lavoratore versi in uno stato di disagio economico e che lo stesso sia documentato. Infine, dagli otto ai dodici anni non è previsto alcuna retribuzione. 4 - Come occorre presentare la domanda?La domanda per i periodi di congedo deve essere effettuata telematicamente tramite il portale web dell’INPS, accedendovi con SPID, Carta d’Identità Elettronica, Carta Nazionale dei Servizi o PIN rilasciato dallo stesso istituto.In alternativa, la domanda può essere effettuata anche tramite i patronati o usufruendo del servizio call center fornito dall’INPS stessa.5 - Congedo parentale ed emergenza Covid.La crisi epidemiologica da Covid 19 ha reso necessario potenziare lo strumento del congedo parentale, concedendo più tempo ai genitori lavoratori da dedicare alla cura e all’assistenza dei figli e incrementando l’indennità erogata dall’INPS.Più nel dettaglio, con il decreto n. 30 del 2021, il Governo ha istituito il c.d. congedo parentale COVID, in aggiunta all’ordinario congedo parentale.Tale congedo, per così dire, straordinario può essere richiesto solamente nell’ipotesi in cui non sia possibile prestare la propria attività lavorativa “da remoto” (c.d. smart working) e, pertanto, in caso di infezione da Covid 19 o quarantena del figlio disposta dall’ASL, per tutto il periodo di assenza da scuola, nonché in caso di sospensione dell’attività didattica in presenza del figlio, per tutta la durata, o anche solo per una parte, della stessa.In tali ipotesi, si può usufruire di un congedo al 50% della retribuzione e coperti da contribuzione figurativa, laddove i figli abbiano meno di quattordici anni, oppure di un congedo senza retribuzione e contribuzione figurativa, se i figli abbiano un’età compresa tra i quattordici e i sedici anni. In tale ultima ipotesi, ovviamente, il genitore che usufruisce del congedo ha il diritto alla conservazione del posto di lavoro.
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21 dic. 2020 • tempo di lettura 3 minuti
Ormai è chiaro a tutti chi siano i c.d. riders, quei ciclofattorini con un grande zaino cubico pieno di vivande che scorrazzano in bici per effettuare consegne a domicilio. Ciò che probabilmente è meno chiaro, e su cui si ritiene utile cercare di fare chiarezza in questa sede, è il tipo rapporto di lavoro che di fatto si instaura tra la piattaforma che gestisce il servizio di delivery (e.g. Foodora, Glovo, Uber Eats, per citarne alcune) e i riders che si registrano alla stessa per accedere alle richieste di consegna degli utenti. Rapporto di lavoro autonomo o subordinato: esiste una risposta?Come si è evoluta la giurisprudenza sul tema?La recente sentenza del Tribunale di PalermoLe tutele: obiettivo raggiunto?1 - Rapporto di lavoro autonomo o subordinato: esiste una risposta?Dal momento che molto dipende da come si atteggia concretamente il rapporto tra piattaforma e riders nei singoli casi di specie, non è possibile identificare una risposta univoca e valida per tutte le circostanze. Tuttavia, dando un’occhiata al quadro giurisprudenziale e normativo che si sta formando in Italia sul tema, è sicuramente riscontrabile una crescente attenzione nei confronti delle esigenze di tutela dei riders. 2 - Come si è evoluta la giurisprudenza sul tema?In un primo momento la giurisprudenza si è mossa nel senso di non ritenere applicabile ai riders la disciplina tipica del rapporto di lavoro subordinato. Secondo il Tribunali di Torino e Milano, il rapporto di lavoro dei riders non solo non può essere riconosciuto come rapporto di lavoro subordinato in senso classico (ex art. 2094 c.c.), ma nemmeno come rapporto di collaborazione prevalentemente personale e continuativa (tipologia di rapporto per il quale il Jobs Act prevede che si applichi la medesima disciplina del rapporto di lavoro subordinato). In concreto tali pronunce hanno ritenuto che la libertà dei riders di decidere se e quando lavorare comprometta a monte il potere organizzativo e direttivo della piattaforma nei loro confronti, rappresentando così un elemento decisivo a favore dell’autonomia del rapporto. Successivamente, tale approccio è stato parzialmente sconfessato, dal momento che alcune pronunce sono arrivate ad affermare che la libertà dei riders di decidere se e quando lavorare sia effettivamente riscontrabile solo nella fase genetica del rapporto mentre, nella fase esecutiva, i riders sarebbero pienamente inseriti nell’organizzazione della piattaforma, che stabilisce in maniera più o meno penetrante le modalità della prestazione. Ciò ha portato i giudici a concludere che, sebbene i riders siano da considerarsi tecnicamente autonomi, date le peculiarità che caratterizzano il concreto atteggiarsi del loro rapporto di lavoro, debbano rientrare nell’ambito applicativo del Jobs Act (in particolare art. 2 del d.lgs. 81/2015), con la conseguente applicabilità della disciplina del rapporto di lavoro subordinato.Quest’ultimo orientamento risultava del resto coerente con l’intervento normativo del 2019 il quale, da un lato, ha espressamente previsto che anche le prestazioni di lavoro organizzate mediante piattaforme digitali rientrano nell’ambito dell’art. 2 del d.lgs. 81/2015 e, dall’altro, ha introdotto specifiche disposizioni volte a regolare e tutelare specificamente la figura dei riders (e.g. in tema di compenso, copertura assicurativa ecc.). 3 - La recente sentenza del Tribunale di PalermoSe il punto di arrivo di cui sopra, di fatto condiviso sia dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione che dal legislatore, sembrava poter chiudere la questione, una recentissima sentenza del Tribunale di Palermo è andata addirittura oltre e, tenuto conto di tutte le circostanze del caso concreto, è arrivata a riconoscere il rider ricorrente non come collaboratore continuativo della piattaforma che presta la propria opera in maniera prevalentemente personale, ma addirittura come lavoratore subordinato ai sensi dell’art. 2094 c.c. 4 - Le tutele: obiettivo raggiunto?Pare quindi potersi affermare che i riders siano riusciti ad ottenere quelle tutele che inizialmente erano loro negate. Infatti, o per il tramite delle modifiche al Jobs Act o per il tramite di un accertamento in concreto che porti a qualificarli in tutto e per tutto come lavoratori dipendenti, agli stessi è stato riconosciuto il diritto a vedersi applicata la disciplina del rapporto di lavoro subordinato. Editor: dott. Giovanni Fabris
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Egregio Avvocato
12 apr. 2021 • tempo di lettura 5 minuti
Dopo la sentenza della Corte Costituzionale n. 59/2021, in caso di manifesta insussistenza del motivo oggettivo posto alla base del licenziamento, il giudice può ancora scegliere tra tutela indennitaria e reintegrazione in servizio?1. Licenziamento per giustificato motivo oggettivo: breve excursus normativo e giurisprudenziale2. Le modifiche introdotte dalla Legge n. 92/2012 all’apparato sanzionatorio3. La recente pronuncia della Corte Costituzionale n. 59/20211 - Licenziamento per giustificato motivo oggettivo: breve excursus normativo e giurisprudenzialeIl licenziamento per giustificato motivo oggettivo trova la sua base normativa nell’art. 3 della Legge n. 604/1966 alla stregua del quale il datore di lavoro può procedere al licenziamento del dipendente per “ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”. Si tratta, pertanto, di ragioni di carattere oggettivo che prescindono da inadempimenti del lavoratore di obblighi contrattuali, tant’è che si è spesso soliti qualificare tale licenziamento come “economico”, in quanto strettamente connesso a ragioni di economicità del tutto scollegate da fattori inerenti la persona del lavoratore. Le ipotesi più frequenti di licenziamento per ragioni oggettive sono rappresentate dalla cessazione e/o dalla riduzione dell’attività aziendale. Peraltro, la riduzione dell’attività aziendale può anche derivare dalla decisione imprenditoriale, per ottenere una gestione più economica e conveniente dell’impresa, di affidare a terzi parte delle attività in precedenza svolte all’interno dell’impresa,Ancora, secondo la giurisprudenza, il datore di lavoro è legittimato a procedere al licenziamento per ragioni oggettive nelle ipotesi di riorganizzazione ovvero di ristrutturazione dell’impresa nonché nei casi in cui decida di sopprimere la posizione lavorativa occupata dal dipendente. In tal caso, non occorre, ai fini della legittimità del licenziamento, che vengano soppresse tutte le mansioni affidate al dipendente essendo sufficiente la mera ridistribuzione di tali mansioni all’interno dell’organico aziendale.Negli ultimi anni la giurisprudenza è poi giunta a ritenere pienamente legittimo il licenziamento intimato per conseguire: “la migliore efficienza gestionale o anche l'esigenza d'incremento del profitto che si traducano in un effettivo mutamento dell'assetto organizzativo da attuare mediante soppressione di una posizione lavorativa possono integrare il giustificato motivo oggettivo di licenziamento”. (Cass. 25201/2016) chiarendo, quindi, che ai fini della legittimità del recesso, il datore di lavoro non è tenuto a dimostrare condizioni economiche sfavorevoli, giacché la norma di riferimento (art. 3 Legge n. 604/1966) non lo prevede.E’ bene precisare che le ragioni poste alla base di questo tipo di recesso, non sono sindacabili nel merito dall’autorità giudiziaria, in quanto espressione del principio di libera iniziativa economica di cui all’art. 41 Cost., pertanto, il giudice potrà limitarsi a verificare la sussistenza delle ragioni che hanno condotto al licenziamento del dipendente, il cui onere della prova grava sul datore di lavoro, quest’ultimo dovrà dimostrare, oltre all’effettiva esistenza delle ragioni poste alla base del licenziamento, anche di non aver potuto proficuamente ricollocare il dipendente all’interno dell’organico aziendale (cd. “obbligo di repêchage”).2 - Le modifiche introdotte dalla Legge n. 92/2012 all’apparato sanzionatorioPrima dell’avvento della Legge n. 92/2012 (cd. “Riforma Fornero”), secondo l’art. 18 della Legge n. 300/1970 (cd. Statuto dei Lavoratori) la mancata dimostrazione delle ragioni poste alla base del recesso ovvero la loro insussistenza conduceva il giudice del lavoro a dichiarare illegittimo il licenziamento e ad ordinare la reintegrazione in servizio del lavoratore illegittimamente licenziato. Tuttavia, l’apparato sanzionatorio introdotto dal noto art. 18 dello Statuto dei Lavoratori è stato profondamente modificato a seguito delle novelle introdotte dalla citata Legge n. 92/2012, riforma che ha inciso su tutte le sanzioni previste per le diverse tipologie di licenziamento individuale e collettivo. Per quanto concerne il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il novellato comma VII dell’art. 18, applicabile per tutti i lavoratori assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato in data anteriore al 7 marzo 2015 - valendo per gli assunti dopo tale data, il D.lgs. 23/2015 - nonché ai datori di lavoro imprenditori e non imprenditore che rispettano il requisito dimensionale di cui al VIII comma, art. 18), prevede che nelle ipotesi in cui il giudice accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo nonché nelle altre ipotesi in cui dovesse accertare che non ricorrono gli estremi del predetto giustificato motivo, possa disporre la reintegrazione in servizio del lavoratore illegittimamente licenziato ovvero dichiarare risolto e condannare il datore di lavoro a pagare una indennità risarcitoria compresa tra un minimo di dodici ed un massimo di ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, nella cui determinazione terrà conto, oltre ai criteri di cui al quinto comma dell’art. 18 (vale a dire, il numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell’attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti, con onere di specifica motivazione a tale riguardo), delle iniziative assunte dal lavoratore per la ricerca di una nuova occupazione e del comportamento delle parti nell'ambito della procedura di cui all’art. 7 Legge n. 604/1966 e successive modificazioni.3 - La recente pronuncia della Corte Costituzionale n. 59/2021Con la recentissima pronuncia n. 59/2021, la Corte Costituzionale è stata chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale dell’art. 18, comma VII, Legge n. 300/1970, laddove la disposizione consente al giudice di optare tra la reintegrazione in servizio ovvero, in luogo della tutela reintegratoria, di dichiarare definitivamente risolto il rapporto di lavoro e di condannare il datore di lavoro a corrispondere al lavoratore illegittimamente licenziato una indennità risarcitoria compresa tra un minimo di dodici ed un massimo di ventiquattro mensilità. Ebbene, secondo la Corte Costituzionale la norma in questione è viziata di incostituzionalità nella parte in cui, nell’ipotesi di manifesta insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, conceda al giudice di optare tra reintegrazione e tutela indennitaria, scelta che, al contrario, non è prevista per in caso di manifesta insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento intimato per giusta causa (e, quindi, per ragioni soggettive) . In questo caso, infatti, il giudice è sempre obbligato a disporre la reintegrazione in servizio. In particolare, secondo la Corte, una simile differenziazione di tutele si pone in contrasto con la Costituzione dal momento che: “in un sistema che per scelta consapevole del Legislatore attribuisce rilievo al presupposto comune dell’insussistenza del fatto e a questo presupposto collega l’applicazione della tutela reintegratoria del lavoratore, si rivela disarmonico e lesivo del principio di uguaglianza il carattere facoltativo del rimedio della reintegrazione per i soli licenziamenti economici, a fronte dell’inconsistenza addotta e dalla presenza di un vizio ben più grave rispetto alla pura e semplice insussistenza del fatto”.Pertanto, alla luce della recente pronuncia della Corte Costituzionale, il giudice, in ipotesi di manifesta insussistenza del motivo oggettivo posto alla base del recesso datoriale, non potrà più scegliere tra tutela indennitaria e reintegrazione dovendo, quindi, optare per la prima tutela. Editor: Avv. Francesca Retus
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Egregio Avvocato
9 dic. 2021 • tempo di lettura 6 minuti
Con la Legge n. 80 del 1898 fu introdotta, per la prima volta, l’assicurazione sociale per gli infortuni sul lavoro, cui fece seguito l’assicurazione per le malattie professionali e il Testo Unico delle disposizioni in materia di assicurazione obbligatoria.Questa complessa disciplina è intervenuta a regolare il c.d. rischio professionale, vale a dire il rischio correlato all’attività lavorativa. Con l’avvento dell’assicurazione sociale si è, sostanzialmente, trasferita la titolarità di questo rischio – prevista dall’art. 2087 c.c. in capo al datore di lavoro – da quest’ultimo all’istituto previdenziale che, in caso di lesioni incorse al lavoratore, lo indennizza.Nel corso del tempo, tuttavia, la tutela al lavoratore si è sempre più estesa, non limitandosi solamente agli infortuni occorsi sul luogo di lavoro, ma prendendo in esame anche i c.d. infortuni in itinere.L’infortunio sul lavoro: cosa s’intende per infortunio in itinere?Il “normale percorso” e le sue variazioni. Le condizioni di operatività della tutelaInfortunio in itinere e le differenti modalità di percorrenzaGli adempimenti da compiere I limiti alla tutela1 - L’infortunio sul lavoro: cosa s’intende per infortunio in itinere?L’infortunio sul lavoro può essere definito come il danneggiamento all’integrità psico – fisica di un individuo che si verifica a causa di un fattore esterno durante il normale svolgimento dell’attività lavorativa. Pertanto, almeno inizialmente, la tutela previdenziale veniva riconosciuta solamente a coloro i quali, considerate mansioni svolte e posizioni ricoperte, fossero esposti a rischio durante il proprio orario lavorativo. Con le modifiche intervenute al Testo Unico delle disposizioni per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, tuttavia, ha assunto rilevanza anche il c.d. infortunio in itinere.Ma cosa s’intende per infortunio in itinere? In base alla lettera dell’art. 12 del Decreto Legislativo n. 38/2000 è possibile definirlo una tipologia di infortunio che si verifica lungo il normale percorso che il lavoratore compie spostandosi: a) dal luogo di abitazione a quello di lavoro e viceversa; b) da un primo luogo di lavoro ad un altro laddove il lavoratore sia impegnato in differenti rapporti lavorativi; oppure c) dal luogo di lavoro a quello di consumazione abituale dei pasti e viceversa.2 - Il “normale percorso” e le sue variazioni. Le condizioni di operatività della tutelaSi parla, quindi, di “normale percorso” che il lavoratore compie. Ma cosa si deve intendere con questa “formula”?Sul punto la dottrina ha interpretato la norma considerando “normale percorso” quello più breve e diretto, vale a dire quello che normalmente o, quanto meno, abitualmente il lavoratore compie ma, anche, quello non abituale ma che sia giustificato da concrete situazioni che impongano di percorrerlo in una data occasione.Ne consegue che, almeno teoricamente, tutte le eventuali variazioni effettuate nei tragitti abituali, se non sono la diretta conseguenza di necessità improrogabili, non farebbero rientrare un eventuale infortunio tra quelle da annoverare come avvenuto in itinere.Le variazioni per far permanere la tutela al lavoratore in caso di infortunio devono essere effettuate per adempiere a un ordine impartito dal datore di lavoro oppure scaturire da cause di forza maggiore o esigenze improrogabili o per adempiere a obblighi penalmente rilevanti.Le condizioni per l’operatività della tutela sono essenzialmente tre. Difatti, affinché operi la tutela assicurativa, lo spostamento, oltre che esser compiuto lungo il “normale percorso” deve avere fini lavorativi e deve sussistere un nesso causale tra il tragitto e l’attività lavorativa.3 - Infortunio in itinere e le differenti modalità di percorrenzaSe è vero che le condizioni per l’operatività della tutela sono tre, è altrettanto vero che, ai fini dell’indennizzabilità dell’infortunio in itinere, si debba prendere in considerazione anche la modalità di spostamento impiegata dal lavoratore per coprire il normale percorso.Innanzitutto, basandosi sui chiarimenti forniti dalla stessa INAIL in vari circolari si può tranquillamente affermare che, in presenza delle tre condizioni già citate, laddove il tragitto sia percorso con le “ordinarie modalità” di spostamento, opera senza dubbio la copertura assicurativa.In altri termini, saranno indennizzati tutti quegli infortuni avvenuti spostandosi a piedi o a bordo di mezzi pubblici. Sembrerebbe, quindi, che non ci sia invece spazio per indennizzare gli infortuni occorsi a bordo di mezzi propri. Tuttavia, la normativa stabilisce che l’assicurazione infortuni sul lavoro opera anche nel caso si utilizzi un mezzo di trasporto privato, purché necessitato. Stando all’interpretazione giurisprudenziale, il requisito della necessità va valutato attraverso differenti fattori e, in via ragionevole, si considera giustificato l’uso del mezzo privato quando: a) il mezzo è fornito dal datore di lavoro per esigenze lavorative, b) non esistono mezzi pubblici di trasporto che collegano il luogo di abitazione con il luogo di lavoro o non vi è coincidenza di orari, c) il risparmio di tempo, utilizzando il mezzo privato, sia pari o superiore a un’ora per tragitto.Cosa accade, però, se il mezzo utilizzato non è a motore? Considerata la sempre maggior diffusione nell’utilizzo della bicicletta, l’INAIL aveva inizialmente interpretato estensivamente l’art. 12 del Decreto Legislativo 38/2000, stabilendo che l’infortunio occorso a bordo di un velocipede, percorrendo una strada aperta al traffico di veicoli a motore, dovesse essere indennizzato solo in presenza delle condizioni necessarie per rendere necessitato l’uso della bicicletta, mentre si potesse prescindere dalle condizioni di necessità qualora l’infortunio si fosse verificato in un tratto di percorso protetto come ad esempio una pista ciclabile.Sul punto sono intervenuti anche il legislatore e la giurisprudenza, espressamente stabilendo che l’utilizzo della bicicletta come mezzo privato per il raggiungimento del posto di lavoro debba sempre considerarsi “necessitato”.4 - Gli adempimenti da compiere Una volta occorso il sinistro, il lavoratore ha l’obbligo per legge di avvisare o far avvisare il proprio datore di lavoro. Comunicazione che deve essere immediata poiché non ottemperando a tale obbligo si perde il diritto alle prestazioni INAIL per i giorni antecedenti a quello in cui il datore di lavoro ha avuto notizia dell’infortunio.Una volta appresa la notizia, il datore di lavoro deve inviare, a seconda dei casi, la comunicazione o la denuncia dell’infortunio stesso all’INAIL.In particolare, la comunicazione di infortunio va presentata nell’ipotesi di prognosi e assenza del lavoratore per almeno un giorno successivo a quello dell’evento oppure per assenza prolungata sino a tre giorni. Essa va presentata telematicamente entro 48 ore da quando è stato inviato il certificato medico ed è meramente fini informativi.La denuncia di infortunio, invece, va presentata nel caso in cui vi sia una prognosi che vada oltre i 3 giorni successivi all’evento. In queste ipotesi, il datore di lavoro dovrà inoltrare la denuncia all’INAIL entro 48 ore dal momento della conoscenza dell’infortunio o entro 24 ore per i casi più gravi.5 - I limiti alla tutelaIn linea teorica, in caso di infortunio in itinere accaduto per colpa del lavoratore, gli aspetti soggettivi della condotta – negligenza, imprudenza, imperizia, violazione di norme – non assumono rilevanza ai fini della indennizzabilità, poiché si ritiene che la colpa del lavoratore non interrompa il nesso causale tra il rischio lavorativo e l’infortunio, a meno che non si configurino comportamenti talmente eccessivi da rientrare nel c.d. rischio elettivo.Il rischio elettivo, secondo la Corte di Cassazione, è definibile come una deviazione arbitraria dalle normali modalità lavorative per finalità personali, che comporta rischi diversi da quelli inerenti alle normali modalità di esecuzione della prestazione (Cass. n. 19081/2013).Ne deriva che la tutela assicurativa dell’infortunio in itinere non copre quegli infortuni avvenuti a causa: di deviazioni o soste effettuate per esigenze personali, di deviazioni effettuate per scelta del lavoratore, dell’abuso di sostanze alcoliche, stupefacenti, psicotrope, della violazione del Codice della Strada.Editor: avv. Marco Mezzi
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Scritto da:
Egregio Avvocato
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