Egregio Avvocato
Pubblicato il 17 mag. 2021 · tempo di lettura 5 minuti
Il patto di non concorrenza previsto dall’art. 2125 c.c. accompagna spesso contratti di lavoro subordinato. Vediamo di cosa si tratta e quali sono i requisiti previsti ai fini della sua validità
1 - Il patto di non concorrenza: di che si tratta? Ricostruzione dell’istituto
L’art. 2125 c.c. definisce patto di non concorrenza il patto “con il quale si limita lo svolgimento dell'attività del prestatore di lavoro, per il tempo successivo alla cessazione del contratto”.
Ai fini della sua validità, la disposizione in questione prevede che il predetto patto – accessorio al contratto di lavoro subordinato – sia redatto in forma scritta e contenga un corrispettivo a favore del prestatore di lavoro. Per quanto riguarda, invece, il vincolo previsto nel patto di non svolgere attività concorrenziale una volta cessato il rapporto di lavoro, è necessario che esso sia contenuto entro specificati i limiti di oggetto, di luogo e di tempo. Si tratta, dunque, di un contratto a titolo oneroso ed a prestazioni corrispettive, giacché, come anticipato, il prestatore di lavoro si impegna dopo la cessazione del rapporto di lavoro, a fronte di un corrispettivo, a non prestare attività concorrenziale in favore di altri soggetti.
Sul piano degli interessi meritevoli di tutela regolati dal patto, secondo consolidata giurisprudenza, le clausole di non concorrenza sono finalizzate da un lato, a salvaguardare l’imprenditore da qualsiasi esportazione presso imprese concorrenti del patrimonio immateriale dell’azienda, trattandosi di un bene che assicura la sua resistenza sul mercato ed il suo successo rispetto alle aziende concorrenti, e dall’altro, a tutelare il lavoratore subordinato, affinché le dette clausole non comprimano eccessivamente le possibilità di poter indirizzare la propria attività lavorativa verso altre occupazioni, ritenute più convenienti (da ultimo, Cass. Sez. lav. n. 9790/2020).
Il patto può essere inserito direttamente nel contratto di lavoro o, in alternativa, essere contenuto in una lettera separata, ciò non rileva ai fini della validità del patto medesimo, essendo richiesto unicamente che la sua redazione avvenga in forma scritta, con la conseguenza che qualsivoglia intesa orale diretta a limitare la futura collocazione del lavoratore sul mercato, è radicalmente nulla per difetto di forma.
Altro elemento imprescindibile ai fini della validità del patto è il suo oggetto: infatti, nonostante la generale formulazione della norma civilistica, si ritiene pacificamente che il patto di non concorrenza, seppur possa comprendere anche attività non propriamente rientranti nelle mansioni svolte dal dipendente, non debba comunque essere di “ampiezza tale da comprimere la esplicazione concreta della professionalità del lavoratore in limiti che compromettano ogni potenzialità reddituale” (Cass. Sez. lav., sent. 13282/2003).
L’oggetto, pertanto, può anche essere esteso al di là delle mansioni espletate dal dipendente che ha sottoscritto il patto, ma il sacrificio richiesto a quest’ultimo non può essere tale da impedirgli di immettersi nuovamente sul mercato del lavoro una volta cessato il rapporto lavorativo con il precedente datore.
Rispetto alle modalità di pagamento l’art. 2125 c.c. non prevede una apposita disciplina, ed infatti, parte della giurisprudenza ritiene che il corrispettivo possa essere corrisposto sia al termine del rapporto di lavoro ma anche in costanza di rapporto. In relazione a tale ultima modalità di pagamento, è stato ritenuto che la stessa non inficia la validità del patto e che il corrispettivo possa anche essere solo determinabile, poiché l’art. 2125 c.c. lascia alle parti ampia autonomia nella determinazione delle modalità di pagamento del corrispettivo, cosicché l’erogazione del corrispettivo potrà essere validamente pattuita sotto forma di percentuale sulla retribuzione o di somma da corrispondersi in costanza di rapporto (Trib. Milano, sent. 21 luglio 2005, in tal senso si è espresso anche il Tribunale di Pescara con la recente sentenza 10 luglio 2020, n. 267). In relazione a tale aspetto, si è tuttavia registrato anche un orientamento contrario secondo cui il pagamento del corrispettivo del patto in costanza di rapporto violerebbe l’art. 2125 c.c., introducendo una “variabile legata alla durata del rapporto stesso”, con conseguente aleatorietà del patto stesso.
2 - Il corrispettivo: l’ultima pronuncia della Cassazione
Avuto proprio riguardo al corrispettivo, si è pronunciata di recente la Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con la sentenza n. 5540 del 1° marzo 2021. Con tale pronuncia, la Cassazione ha stabilito che la nullità per indeterminatezza o indeterminabilità del corrispettivo (quale vizio del requisito di cui all’art. 1346 c.c.) e la nullità per violazione dell’art. 2125 c.c., laddove il corrispettivo “non è pattuito” (ovvero sia simbolico, manifestamente iniquo o sproporzionato), operano su piani giuridicamente distinti ed ognuno di essi richiede una specifica motivazione.
Pertanto – stabilisce l’ordinanza – “al fine di valutare la validità del patto di non concorrenza, in riferimento al corrispettivo dovuto, si richiede, innanzitutto, che, in quanto elemento distinto dalla retribuzione, lo stesso possieda i requisiti previsti in generale per l'oggetto della prestazione dall'art. 1346 c.c.; se determinato o determinabile, va verificato, ai sensi dell'art. 2125 c.c., che il compenso pattuito non sia meramente simbolico o manifestamente iniquo o sproporzionato, in rapporto al sacrificio richiesto al lavoratore e alla riduzione delle sue capacità di guadagno, indipendentemente dall'utilità che il comportamento richiesto rappresenta per il datore di lavoro e dal suo ipotetico valore di mercato, conseguendo comunque la nullità dell'intero patto alla eventuale sproporzione economica del regolamento negoziale”. In altri termini, la Cassazione ha chiarito che la valutazione circa la congruità del corrispettivo deve essere ricondotta unicamente all’alveolo dell’art. 2125 c.c. non dovendosi, quindi, confondere tale giudizio con la previsione di cui all’art. 1346 c.c. relativa alla determinatezza ovvero determinabilità riferibile al corrispettivo, giacché altrimenti si rischierebbe di dar vita ad una “sovrapposizione indebita che genera incertezza nell’iter logico seguito per il convincimento del giudicante, precludendo un effettivo controllo sull’esattezza e sulla logicità del ragionamento”.
Editor: avv. Francesca Retus
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Egregio Avvocato
27 set. 2021 • tempo di lettura 4 minuti
In caso di morte del pensionato o del lavoratore in possesso dei requisiti di legge per il diritto alla pensione di vecchiaia o di invalidità, i familiari superstiti hanno diritto ad un trattamento pensionistico erogato dall’Inps.È necessario distinguere tra la pensione di reversibilità, che viene liquidata in seguito alla morte del pensionato, e la pensione indiretta, che viene liquidata in seguito alla morte dell’assicurato non titolare di pensione. La domanda di pensione ai superstiti può essere inoltrata all’Inps esclusivamente in via telematica attraverso il sito web, il telefono (tramite il contact center integrato) e i patronati. In presenza di quali presupposti ed a chi spetta la pensione? ed in quale misura?Chi sono i beneficiari della pensione?In che misura spetta la pensione?Da quando decorre il diritto alla pensione?Quando cessa il diritto alla pensione?1 – Chi sono i beneficiari della pensione?Presupposto per ottenere il trattamento pensionistico è la vivenza a carico del lavoratore al momento del decesso di determinati soggetti.Hanno diritto alla pensione i seguenti soggetti individuati dall’art. 13 RDL 636/39: a) coniuge o parte di un’unione civile; b) figli di età non superiore a 18 anni o di qualunque età se inabili al lavoro e a carico del genitore deceduto; c) in manca dei soggetti individuati al punto a), i genitori; d) in mancanza anche dei genitori, fratelli celibi e sorelle nubili. Quanto al coniuge superstite del pensionato o del lavoratore assicurato deceduto ha diritto automaticamente alla reversibilità del trattamento pensionistico.Tale diritto è riconosciuto anche al componente superstite dell’unione civile.Di regola, il coniuge separato, anche con addebito, ha diritto alla pensione di reversibilità. Secondo un primo orientamento occorre che il coniuge superstite sia beneficiario dell’assegno di mantenimento o dell’assegno alimentare a carico del coniuge deceduto; secondo un’altra tesi il diritto alla pensione sussiste a prescindere della previsione in sede di separazione dell’obbligo di versare l’assegno di mantenimento o alimentare.La pensione ai superstiti spetta al coniuge divorziato in presenza di tutte le seguenti condizioni:a) perfezionamento in capo al coniuge deceduto dei requisiti di assicurazione e contribuzione stabiliti dalla legge; b) inizio del rapporto assicurativo dell’assicurato o del pensionato precedente alla data della sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio; c) titolarità dell’assegno di divorzio in forza di una sentenza del Tribunale; d) assenza di un successivo rapporto di coniugio.Se l’ex coniuge deceduto si è rispostato, la pensione spetta sia al coniuge divorziato sia al coniuge superstite, a condizione che entrambi ne abbiano i requisiti. La ripartizione in quote dell’unico trattamento viene effettuata dal Tribunale, tenendo conto della durata dei rispettivi matrimoni. Con riferimento ai figli, anche adottivi e minori affidati, hanno diritto alla pensione se al momento della morte del genitore sono in possesso di uno dei seguenti requisiti: a) età fino ai 18 anni; b) età fino ai 21 anni, se studenti di scuola media o professionale, oppure fino a 26, se frequentanti corsi universitari, purchè siano a carico del genitore al momento del decesso e non prestino attività lavorativa retribuita; c) inabilità al lavoro e vivenza a carico del genitore al momento della morte.2 – In che misura spetta la pensione?La misura della pensione ai superstiti è stabilita in base alle aliquote indicate in una determinata tabella individuata dalla legge. La pensione ai superstiti non può, in ogni caso, essere complessivamente inferiore al trattamento minimo o superiore all’intero ammontare della pensione della quale era – o sarebbe stato – titolare il deceduto.La misura della pensione varia se il coniuge divorziato concorre con i seguenti soggetti: a) figli superstiti; b) genitori, fratelli o sorelle del pensionato o dell’assicurato: il coniuge divorziato esclude sia gli uni sia gli altri dal diritto alla pensione.3 - Da quando decorre il diritto alla pensione?La pensione decorre dal primo giorno del mese successivo a quello del decesso del pensionato o dell’assicurato, indipendentemente dalla data di presentazione della relativa domanda.La decorrenza è stabilita dal primo giorno del mese successivo a quello del decesso del dante causa.Alla presentazione della domanda si applica la prescrizione ordinaria prevista dall’art. 2946 c.c., ciò vuol dire che trascorsi 10 anni dal decesso i ratei di pensione non riscossi cadono in prescrizione e non possono essere più domandati.4 - Quando cessa il diritto alla pensione?Il diritto alla pensione cessa: a) per il coniuge se contrae nuovo matrimonio; b) per i figli al compimento del 18° anno di età, se studenti in casa di interruzione o conclusione del corso di studi oppure inizio di un’attività lavorativa, se inabili al venir meno dello stato di inabilità; c) per i genitori, se prendono un’altra pensione; d) per i fratelli celibi e le sorelle nubili, qualora contraggono matrimonio. Editor: avv. Elisa Calviello
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31 gen. 2022 • tempo di lettura 5 minuti
La tutela della madre lavoratrice è un principio fondamentale sancito dall’articolo 37 della nostra Costituzione.In particolare, l’ordinamento attua questo principio proteggendo la salute della lavoratrice e riconoscendo il diritto del bambino a un’adeguata assistenza.Per ottemperare all’evoluzione socio – culturale ma anche giurisprudenziale e legislativa, la disciplina della tutela della genitorialità correlata al diritto del lavoro è mutata nel corso del tempo affinché fosse garantito concretamente l’effettivo svolgimento del ruolo di entrambi i genitori – e non più esclusivamente della madre – nella cura e nell’assistenza dei figli.La tutela della genitorialità viene garantita attraverso svariate disposizioni. È possibile menzionare il divieto di licenziamento dall’inizio del periodo di gestazione fino al compimento di un anno di età del bambino, il divieto di adibire la lavoratrice durante la gestazione e sino a sette mesi dopo il parto al trasporto e al sollevamento di pesi, nonché a lavori pericolosi, faticosi ed insalubri, il divieto al lavoro notturno sempre dall’accertamento dello stato di gravidanza sino al compimento di un anno di età del bambino, e così via.Uno degli aspetti che, invece, concerne anche la tutela della genitorialità del padre lavoratore è il c.d. congedo parentale. Come funziona il congedo parentale? A chi spetta e quanto dura il congedo parentale?Congedo parentale e indennitàCome occorre presentare la domanda?Congedo parentale ed emergenza Covid.1 - Come funziona il congedo parentale?Il congedo parentale è un periodo di astensione facoltativa dal lavoro concesso ai genitori per l’assistenza e la cura del figlio nei suoi primi anni di vita nonché, ovviamente, per soddisfare i bisogni affettivi e relazionali.Ma come funziona il congedo parentale?Il congedo parentale spetta ai genitori naturali, in costanza di rapporto lavorativo, entro i primi dodici anni di vita del bambino e per un periodo complessivo tra i due genitori che non superi i dieci mesi. Questi mesi salgono a undici laddove il padre lavoratore si astenga dal lavoro per un periodo, continuativo o frazionato, di almeno tre mesi.Nell’ipotesi in cui il rapporto di lavoro cessi all’inizio o durante il periodo di congedo, il diritto allo stesso viene, ovviamente, meno dalla data di interruzione del lavoro.2 - A chi spetta e quanto dura il congedo parentale?Considerata la definizione data pocanzi, a chi spetta e quanto dura effettivamente il diritto di astenersi dal lavoro?Innanzitutto, il congedo parentale spetta alla madre lavoratrice dipendente per un periodo, continuativo o frazionato, di massimo sei mesi.In secondo luogo, spetta al padre lavoratore dipendente per un periodo, continuativo o frazionato di massimo sei mesi, che possono diventare sette nel caso di astensione dal lavoro per un periodo, sempre continuativo o frazionato, di almeno tre mesi. Occorre aggiungere, altresì, che al padre lavoratore dipendente spetta anche durante il periodo di astensione obbligatoria della madre e anche nell’ipotesi in cui la stessa non lavori.Il congedo parentale spetta, anche, al genitore solo – padre o madre che sia – per il periodo, frazionato o continuativo, di massimo dieci mesi. Ai lavoratori dipendenti che siano genitori adottivi o affidatari, il congedo spetta con le medesime modalità dei genitori naturali e, quindi, entro i primi dodici anni dall’ingresso del minore nella famiglia, indipendentemente dall’età del bambino all’atto dell’adozione o dell’affidamento e, in ogni caso, non oltre il compimento della sua maggiore età.La Legge n. 228 del 2012 ha introdotto la possibilità di frazionare a ore il congedo parentale rinviando, poi, alla contrattazione collettiva di settore il compito di stabilire le modalità di fruizione del congedo su base oraria e l’equiparazione di un dato monte ore alla singola giornata lavorativa.3 - Congedo parentale e indennitàDurante la fruizione del congedo parentale il lavoratore non percepisce la vera e propria retribuzione bensì un’indennità sostitutiva, erogata dall’INPS, che viene calcolata in misura percentuale alla retribuzione.In particolare, occorre dire che la retribuzione corrisposta durante i periodi di congedo parentale è legata all’età del figlio per cui tali periodi sono richiesti.Sino a sei anni di età, spetta il 30% della retribuzione media giornaliera calcolata sulla base della retribuzione del mese precedente l’inizio del congedo. Dai sei agli otto anni, spetta il 30% solo se il lavoratore versi in uno stato di disagio economico e che lo stesso sia documentato. Infine, dagli otto ai dodici anni non è previsto alcuna retribuzione. 4 - Come occorre presentare la domanda?La domanda per i periodi di congedo deve essere effettuata telematicamente tramite il portale web dell’INPS, accedendovi con SPID, Carta d’Identità Elettronica, Carta Nazionale dei Servizi o PIN rilasciato dallo stesso istituto.In alternativa, la domanda può essere effettuata anche tramite i patronati o usufruendo del servizio call center fornito dall’INPS stessa.5 - Congedo parentale ed emergenza Covid.La crisi epidemiologica da Covid 19 ha reso necessario potenziare lo strumento del congedo parentale, concedendo più tempo ai genitori lavoratori da dedicare alla cura e all’assistenza dei figli e incrementando l’indennità erogata dall’INPS.Più nel dettaglio, con il decreto n. 30 del 2021, il Governo ha istituito il c.d. congedo parentale COVID, in aggiunta all’ordinario congedo parentale.Tale congedo, per così dire, straordinario può essere richiesto solamente nell’ipotesi in cui non sia possibile prestare la propria attività lavorativa “da remoto” (c.d. smart working) e, pertanto, in caso di infezione da Covid 19 o quarantena del figlio disposta dall’ASL, per tutto il periodo di assenza da scuola, nonché in caso di sospensione dell’attività didattica in presenza del figlio, per tutta la durata, o anche solo per una parte, della stessa.In tali ipotesi, si può usufruire di un congedo al 50% della retribuzione e coperti da contribuzione figurativa, laddove i figli abbiano meno di quattordici anni, oppure di un congedo senza retribuzione e contribuzione figurativa, se i figli abbiano un’età compresa tra i quattordici e i sedici anni. In tale ultima ipotesi, ovviamente, il genitore che usufruisce del congedo ha il diritto alla conservazione del posto di lavoro.
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8 set. 2024 • tempo di lettura 13 minuti
Le ultime Sentenze e Ordinanze della Cassazione hanno visto mutare il termine "Mobbing" in Stress da conflittualità lavorativa. Difatti, gli annullamenti dei ricorsi per mobbing della Cassazione sezione lavoro della Suprema Corte, con riferimento allo specifico tema del mobbing, sono ben sei ordinanze (19 gennaio 2024, n. 2084; 31 gennaio 2024, n. 2870; 12 febbraio 2024, n. 3791;12 febbraio 2024, n. 3822; 12 febbraio 2024, n. 3856;16 febbraio 2024, n. 4279) pronunciate quasi tutte dallo stesso collegio; ordinanze che, nell’arco di poco meno di un mese, hanno consolidato -portandolo a maturazione- un orientamento che incide in modo importante sulle vessazioni lavorative e, più in generale, sulla conflittualità all’interno dei luoghi di lavoro. Il denominatore è comune a tutte le pronunce: ricorrono in Cassazione lavoratrici e lavoratori, lamentando il mancato accoglimento in appello delle domande risarcitorie per le vessazioni lavorative (recte mobbing) subite sul posto di lavoro ad opera dei rispettivi datori. Le doglianze dei ricorrenti scontano già in partenza un vizio di fondo, dovuto al linguaggio “monocorde” di chi ne ha veicolato le ragioni: è il lessico del “panmobbismo”, logoro modello interpretativo che tende a costringere qualsiasi disfunzione lavorativa (fosse anche una singola sanzione disciplinare o un’isolata aggressione) nella “camicia di forza” del mobbing che, proprio in ragione di ciò, ha da tempo perso ogni credibilità nelle aule dei tribunali italiani (eloquenti a tal proposito sono le statistiche pubblicate in un recente studio promosso da OIL, Violenza e molestie nel mondo del lavoro. Un’analisi della giurisprudenza del lavoro italiana, Roma, 2022, p. 7 e ss., reperibile sul seguente link Violenza e molestie nel mondo del lavoro. Un’analisi della giurisprudenza del lavoro italiana (ilo.org). La risposta degli Ermellini è corale: lo scrutinio del giudice di merito non può limitarsi soltanto al mancato accertamento dell’elemento oggettivo o soggettivo alla base dell’invocato mobbing (cfr. Cass. 16 febbraio 2024, n. 4279; Cass. 12 febbraio 2024, n. 3822), giungendo in questo modo a un tanto automatico quanto comodo rigetto della domanda, che rientra peraltro nell’alveo della responsabilità contrattuale ex art. 2087 c.c. Al contrario, proprio alla luce del ben più ampio perimetro delineato dall’art. 2087 c.c. (che mira a proteggere ogni pregiudizio alla salute e alla personalità morale dei lavoratori e delle lavoratrici, cfr. Cass. 16 febbraio 2023, n. 4279, cit.; Cass. 12 febbraio 2024, n. 3791, cit.; Cass. 12 febbraio 2024, n. 3856,cit.), il Giudice di merito ha l’obbligo di “valutare e accertare l’eventuale responsabilità del datore di lavoro per avere anche solo colposamente omesso di impedire che un ambiente di lavoro stressogeno provocasse un danno alla salute del ricorrente” (cfr. Cass. 12 febbraio 2024, n. 3822, cit., par. 4.4; Cass. 16 febbraio 2024, n. 4279, cit., par. 4.2; Cass. 12 febbraio 2024, n. 3791, cit., par. 3.2.2). Il mutamento di prospettiva è netto, essendo rivolto com’è all’analisi obiettiva dei fattori organizzativi e ambientali attraverso la “norma di chiusura” dell’art. 2087 c.c., che consente di tradurre la responsabilità del datore di lavoro per le condotte lesive della personalità morale del prestatore anche nel mantenimento di condizioni di lavoro stressogene o non rispettose dei principi ergonomici (cfr. Cass. 19 gennaio 2024, n. 2084, cit., par. 6 e par. 7; di “contribuzione causale alla creazione di un ambiente logorante e determinativo di ansia” parla Cass. 19 gennaio 2024, n. 2084, cit., par. 10). Siamo dinanzi ad un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, teso “ad ampliare la tutela risarcitoria in favore del lavoratore, condannando tutti quei comportamenti datoriali idonei a creare un ambiente lavorativo “stressogeno” e lesivo della salute e della dignità del lavoratore, quali beni primari tutelati dalla Costituzione” (cfr. Corte dei Conti Trentino-Alto Adige, sez. giurisdiz., 16 gennaio 2024, n. 1). La formula tralatizia, ormai quasi “ossificata” in molteplici pronunce di legittimità (tra cui le ordinanze in commento) statuisce come “illegittimo che il datore di lavoro consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute dei lavoratori, lungo la falsariga della responsabilità colposa del datore di lavoro che indebitamente tolleri l’esistenza di una condizione di lavoro lesiva della salute, cioè nociva, ancora secondo il paradigma di cui all’art. 2087 c.c. (cfr. Cass., 7 febbraio 2023, n. 3692). Il che si traduce, con riguardo allo specifico ambito della conflittualità lavorativa, nel rilievo dell’ “inadempimento datoriale ad obblighi di appropriatezza nella gestione del personale, già rilevante ai sensi dell’art. 2087 c.c.”, fino a ricomprendervi “tutti i comportamenti, anche in sé non illegittimi, ma tali da poter indurre disagi o stress, che si manifestino isolatamente o invece si connettano ad altri comportamenti inadempienti, contribuendo ad inasprirne gli effetti e la gravità del pregiudizio per la personalità e la salute latamente intesi” (cfr. Cass. 31 gennaio 2024, n. 2870, cit., par. 13; conf. Cass., 7 febbraio 2023, n. 3692, con nota di ROSIELLO, TAMBASCO, Lo SLC nella giurisprudenza di legittimità: nuovi sviluppi, in ISL, 5/2023, p. 247 e ss.). Il risultato finale è un diretto corollario dei principi enunciati, che impatta anche sul riparto degli oneri probatori, ormai svincolato dalla prova -quasi penalistica- dell’intento persecutorio o della specifica volontà di emarginazione: “in caso di accertata insussistenza dell’ipotesi di mobbing in ambito lavorativo, il giudice del merito deve comunque accertare se, sulla base dei medesimi fatti allegati a sostegno della domanda, sussista un ipotesi di responsabilità del datore di lavoro per non avere adottato tutte le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, erano possibili e necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore; su quest’ultimo grava l’onere della prova della sussistenza del danno e del nesso causale tra l’ambiente di lavoro e il danno, mentre grava sul datore di lavoro l’onere di provare di avere adottato tutte le misure necessarie” (cfr. Cass. 16 febbraio 2024, n. 4279, cit., par. 5; Cass. 12 febbraio 2024, n. 3791, cit., par. 4; Cass. 12 febbraio 2024, n. 3822, cit., par. 5). La conflittualità lavorativa nel nuovo orientamento di legittimità Il novum delle ordinanze in esame, che porta ad affermare come le stesse non si limitino a far ripetizione di principi ormai invalsi nella giurisprudenza di legittimità, ma al contrario contribuiscano ad una significativa evoluzione del diritto vivente, è rappresentato proprio dal tema della conflittualità lavorativa. C’è da premettere che fino ad oggi, con l’eccezione di alcune isolate pronunce di merito (cfr. Trib. Forlì, 6 febbraio 2003, est. Sorgi, in MAZZAMUTO, Mobbing, Milano, 2004, p. 180 e ss.), la giurisprudenza dominante ha sempre mantenuto ferma l’ontologica distinzione tra conflitto e vessazione, categorie che fanno riferimento, rispettivamente, alla natura bilaterale o unilaterale dello scontro sviluppatosi nell’ambiente di lavoro; se nel conflitto abbiamo infatti due “contendenti”, nella vessazione invece i protagonisti sono un aggressore e una vittima (cfr. Corte d’Appello di Bologna, sez. lav., 28 aprile 2010, n. 107). Questa distinzione ha portato la giurisprudenza di merito e di legittimità, in modo unanime, a sostenere che non è configurabile la fattispecie persecutoria -e quindi la responsabilità datoriale ex art. 2087 c.c.- nel caso di conflittualità lavorativa tra colleghi, poiché gli screzi e i conflitti interpersonali nell’ambiente di lavoro valgono di per sé ad escludere l’intento persecutorio, elemento fondamentale per integrare la fattispecie mobbizzante (ex multis, Cass. 3 giugno 2022, n. 17974; Cass., 2 dicembre 2021, n. 38123; Cass., 4 marzo 2021, n. 6079; Cass., 29 dicembre 2020, n. 29767; Cass., 11 dicembre 2019, n. 32381; nel merito, cfr. Trib. Torino, sez. lav., 18 dicembre 2002, est. Sanlorenzo). In termini più semplici, se non c’è mobbing (quindi in assenza di una dinamica persecutoria), la conflittualità lavorativa, anche se colpevolmente ignorata dal datore di lavoro e nonostante possa essere fonte di danno alla salute, non rileva minimamente ai fini della responsabilità ex art. 2087 c.c. Questo almeno fino alle ordinanze n. 3791 del 12 febbraio 2024 e n. 4279 del 16 febbraio 2024, con cui la Cassazione segna “un punto di svolta”, ponendo al centro del proprio scrutinio i fattori organizzativi e ambientali, ed ascrivendo alla responsabilità ex art. 2087 c.c. la condotta del datore di lavoro che non abbia prevenuto né rimosso un “clima lavorativo teso e caratterizzato da reciproche incomprensioni” (cfr. Cass. 16 febbraio 2024, n. 4279,cit, par. 4) e un “contesto di conflittualità all’interno dell’istituto” (cfr. Cass. 12 febbraio 2024, n. 3791, cit., par. 3.2.3). Si tratta di un autentico “cambio di paradigma”, che consente di giudicare con più equità situazioni non esauribili nella semplicistica alternativa vessazione/conflittualità. Se infatti poniamo mente alla realtà concreta, il datore di lavoro che ignori colposamente l’esistenza di rapporti conflittuali nei luoghi di lavoro fino al punto di rendere l’ambiente lavorativo nocivo, stressogeno e fonte di concreti pregiudizi psico-fisici a danno dei dipendenti, è ugualmente censurabile rispetto al caso in cui realizzi scientemente delle vessazioni. Proprio su questi presupposti, una risalente e illuminata pronuncia di merito (cfr. Trib. Forlì, 6 febbraio 2003, est. Sorgi, cit.) aveva già valorizzato l’ambiente di lavoro caratterizzato da continue liti e da scontri reciproci (nel caso di specie, uno scontro tra primario e aiuto primario, caratterizzato da “modi di intendere la propria attività in termini di assoluta incompatibilità”), affermando che il datore di lavoro ha il dovere di intervenire, indipendentemente dal fatto che si tratti o meno di mobbing o molestie o discriminazioni, facendo riferimento agli obblighi prescritti dall’art. 2087 c.c., dall’art. 41 comma 2 Cost. (l’iniziativa economica privata non deve recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana) e dall’art. 97 Cost. (l’organizzazione dei pubblici uffici deve assicurare il “buon andamento”). Le recentissime ordinanze della Corte Suprema in commento sono andate addirittura oltre il principio affermato dalla citata sentenza del Tribunale di Forlì, dando rilievo al dovere del datore di lavoro, enucleabile dalla norma di chiusura dell’art. 2087 c.c., non solo di rimuovere ma anche di prevenire la conflittualità delle relazioni personali all’interno dell’ambiente lavorativo (Cfr. Cass. 16 febbraio 2024, n. 4279, cit.; Cass. 12 febbraio 2024, n. 3791, cit.), nell’alveo di quel filone giurisprudenziale che da tempo afferma l’obbligo datoriale di intervenire per ripristinare la serenità necessaria per il corretto espletamento delle prestazioni lavorative (cfr. Cass. 10 novembre 2017, n. 26684). Se anche la conflittualità può quindi generare responsabilità ex art. 2087 c.c. soprattutto nei casi in cui sia rilevabile la colpevole inerzia datoriale, essa si differenzia tuttavia dalla persecuzione vera e propria non solo sul piano della fattispecie, ma anche e soprattutto dal punto di vista delle conseguenze risarcitorie. Su questo piano, infatti, è di particolare importanza il principio enunciato proprio da una delle pronunce in esame che, nel definire le coordinate del potere equitativo del giudice nella liquidazione del compendio risarcitorio, ha sottolineato come il giudice debba comunque tenere in debita considerazione il fatto che “la reiterazione, l’intensità del dolo o altre qualificazioni della condotta sono elementi che possono incidere eventualmente sul quantum del risarcimento” (Cass. 19 gennaio 2024, n. 2084, cit., par. 9; conf. Cass. 19 ottobre 2023, n. 29101, cit.). Lo spettro della quantificazione risarcitoria dovrà muoversi, pertanto, tra i due poli degli ii) illeciti derivanti da semplice negligenza e imperizia (quale ad esempio la colpevole inerzia nel caso di tolleranza della generica conflittualità lavorativa) e delle i) condotte persecutorie connotate da sistematicità ed intenzionalità (mobbing, straining, stalking occupazionale etc.), che segneranno rispettivamente il limite minimo e quello massimo del risarcimento. Conclusioni Tutte le ordinanze in commento si pongono nell’ambito delle discrepanze tra organizzazione e rapporti interpersonali sul luogo di lavoro, formula che fa riferimento ad una delle tre articolazioni in cui si sostanzia la nozione “polifunzionale” di stress lavorativo (cfr. ROSIELLO, TAMBASCO, Il danno da stress lavorativo: una categoria “polifunzionale” all’orizzonte, in Il Giuslavorista, 8 novembre 2022). Più precisamente, il fil rouge che lega le pronunce in esame è l’adozione di una prospettiva sistemica e obiettiva che, nell’ampliare il raggio operativo dell’art. 2087 c.c., consente di dare rilievo e conseguentemente di riconoscere adeguata tutela rispetto agli ambienti lavorativi nocivi e stressogeni. Come abbiamo già accennato, questo mutamento di prospettiva comporta un autentico “cambio di paradigma” dalle rilevanti conseguenze pratiche, i cui riflessi sono rappresentati dai recenti e numerosi annullamenti disposti dalla Suprema Corte. Soprattutto sul piano dell’onere probatorio, infatti, la declinazione “oggettiva” dello scrutinio giudiziale, incentrato sulla violazione datoriale dei doveri atipici sottesi alla fattispecie dell’art. 2087 c.c., comporta un recupero dell’originario riparto previsto dalla responsabilità contrattuale ex art. 1218 c.c., in cui alla prova della nocività dell’ambiente di lavoro, del danno e del nesso causale a carico del lavoratore fa da contrappeso l’onere datoriale di avere adottato “tutte le misure che, secondo la particolarità del lavoro, dell’esperienza e della tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità psico-fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro (cfr. Cass. 18 agosto 2023, n. 24804; conf., ex multis, Cass. 28 novembre 2022, n. 34968; Cass. 10 novembre 2022, n. 33239; Cass. 25 ottobre 2021, n.29909). Siamo di fronte alla responsabilità colposa del datore di lavoro, lontana “anni luce” dalla torsione soggettivistica che aveva assunto l’invalsa interpretazione dell’art. 2087 c.c. in materia di condotte persecutorie, giunta a richiedere addirittura la prova di un non meglio precisato dolo specifico (cfr. Trib. Palermo, 14 ottobre 2021, n. 3800; Trib. Venezia, 3 novembre 2020, n. 310) dal sapore squisitamente penalistico. In conclusione, la centralità dello stress lavorativo come fattore di rischio, già codificata dal legislatore attraverso l’obbligo di preventiva valutazione dei rischi delineato dall’art. 28 primo comma del d.lgs. 81/2008, comporta oggi sul piano operativo un notevole ampliamento dei doveri di prevenzione e protezione a carico del datore di lavoro ai sensi dell’art. 2087 c.c. Ampliamento che la Suprema Corte suggella con il riconoscimento della responsabilità contrattuale per la mancata prevenzione e rimozione della conflittualità delle relazioni personali all’interno dell’ufficio, in violazione dell’ormai cogente obbligo datoriale di intervenire per garantire ed eventualmente ripristinare la serenità necessaria al corretto espletamento delle prestazioni lavorative. Ultime Cassazioni: Cass., ordinanza 19 gennaio 2024, n. 2084; Cass., ordinanza 31 gen- naio 2024, n. 2870; Cass., ordinanza 12 febbraio 2024, n. 3791; Cass., ordinanza 12 febbraio 2024, n. 3856; Cass., ordinanza 12 febbraio 2022, n. 3822; Cass., ordinanza 16 febbraio 2024, n. 4279PMArticoliDiritto penaleDiritto dell'esecuzione penaleCorte Suprema di Cassazione - Sezione Prima Penale - Sentenza n. 9432 del 5 marzo 2024Avv. Prof. Dott. Criminologo Forense Giovanni MoscagiuroPubblicato il 5 mar. 2024 · tempo di lettura 2 minutiIl differimento facoltativo della penaAi fini del differimento facoltativo della pena, ai sensi dell’art. 147, primo comma, n. 2) cod. pen., o della detenzione domiciliare ai sensi dell’art. 47-ter, comma 1-ter, Ord.pen., la malattia da cui il detenuto è affetto deve essere grave, cioè tale da porre in pericolo la vita o da provocare rilevanti conseguenze dannose, o comunque deve esigere un trattamento sanitario non attuabile in regime di carcerazione, dovendosi operare un bilanciamento tra l’interesse del condannato ad essere adeguatamente curato e le esigenze di sicurezza della collettività (cfr, ex multis, Sez. 1, n. 789 del 18/12/2013, dep. 2014; Sez. 1, n. 972 del 14/10/2011).La giurisprudenza di legittimità ha inoltre affermato che, ai fini del differimento della pena, rilevano anche le patologie di entità tale da far apparire l’espiazione della pena in contrasto con il senso di umanità a cui si ispira la norma dell’art. 27 Cost., in quanto capaci di determinare una situazione esistenziale al di sotto della soglia di dignità che deve essere rispettata anche nelle condizioni di restrizione carceraria (Sez. 1, n. 22373 del 08/05/2009; Sez. 1, n. 27352 del 17/05/2019).La patologia psichica può costituire essa stessa una causa di differimento della pena, quando sia di una gravità tale da provocare un’infermità fisica non fronteggiabile in ambiente carcerario, o da rendere l’espiazione della pena in tale forma non compatibile, per le eccessive sofferenze, con il senso di umanità (Sez. 1, n. 35826 del 11/05/2016). Prof. Dr. Giovanni MoscagiuroStudio delle Professioni e Scienze forensi e Criminologia dell'Intelligence ed Investigativa Editori e Giornalisti europei in ambito investigativoAUTORE DI DIVERSI TESTI VISIBILI AL LINK https://author.amazon.com/booksemail: studiopenaleassociatovittimein@gmail.comEsperto e Docente in Diritto Penale ,Amministrativo , Tributario , Civile Pubblica Amministrazione , Esperto in Cybercrime , Social Cyber Security , Stalking e Gang Stalking, Cyberstalking, Bullismo e Cyberbullismo, Cybercrime, Social Crime, Donne vittime di violenza, Criminologia Forense, dell'Intelligence e dell'Investigazione, Diritto Militare, Docente in Criminologia e Scienze Forensi, Patrocinatore Stragiudiziale, Mediatore delle liti, Giudice delle Conciliazioni iscritto all'albo del Ministero di Grazia e Giustizia, ausiliario del Giudice, CTU e CTP, Editori e Giornalisti European news Agency
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14 gen. 2021 • tempo di lettura 3 minuti
Con uno dei primi provvedimenti adottati per fronteggiare l’emergenza sanitaria tutt’ora in corso (il c.d. Decreto Cura Italia), il Governo si era preoccupato di vietare ai datori di lavoro di procedere al licenziamento del proprio personale per un periodo di 60 giorni. Con il perdurare della pandemia, tale divieto è stato via via prorogato fino ad oggi. Cerchiamo di capire di che cosa si tratta e di delineare con chiarezza i confini delle disposizioni rilevanti. Cosa prevede la normativa attualmente in vigore?Quali licenziamenti restano possibili?Quali conseguenze in caso di violazione del divieto di licenziamento?Il difficile equilibrio tra libertà imprenditoriale e tutela dei lavoratori.1 - Cosa prevede la normativa attualmente in vigore?L’attuale disciplina del divieto di licenziamento è contenuta all’interno della legge di bilancio per il 2021 e prevede limitazioni sia ai licenziamenti collettivi che ai licenziamenti individuali fino al 31 marzo 2021. In particolare: è precluso l’avvio di nuove procedure di licenziamento collettivo e restano sospese quelle già pendenti avviate successivamente al 23 febbraio 2020; sono preclusi, a prescindere dal numero di dipendenti del datore di lavoro, i licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo e restano sospese le procedure già in corso davanti agli Ispettorati Territoriali del Lavoro (i.e. quelle procedure, obbligatorie nel caso in cui si intenda licenziare un dipendente assunto prima del 7 marzo 2015, finalizzate a ricercare soluzioni alternative al licenziamento). 2 - Quali licenziamenti restano possibili?Ragionando per differenza rispetto ai contenuti della norma sopra riportata, ne segue che restano implicitamente escluse dal divieto (e rimangono quindi possibili) alcune forme di licenziamento. Tra queste, le più importanti sono quelle aventi ad oggetto i licenziamenti disciplinari e i licenziamenti dei dirigenti. Inoltre, la stessa disciplina del divieto di licenziamento prevede espressamente che si possano comunque disporre i seguenti licenziamenti: licenziamenti motivati dalla cessazione definitiva dell’attività dell’impresa conseguenti alla messa in liquidazione della stessa (a meno che nel corso della liquidazione non si configuri un trasferimento d’azienda ex art. 2112 c.c.); licenziamenti che rientrano nell’ambito di un accordo collettivo aziendale di incentivo alla risoluzione dei rapporti di lavoro (ma solo per quei lavoratori che vi aderiscano); licenziamenti intimati in caso di fallimento, quando non sia previsto l’esercizio provvisorio dell’impresa o ne sia disposta la cessazione. Da ultimo, è opportuno segnalare che il divieto in esame non incide in alcun modo sulla possibilità di raggiungere accordi di risoluzione consensuale, che quindi restano un’utile via per cercare di gestire gli esuberi di personale. 3 - Quali conseguenze in caso di violazione del divieto di licenziamento?Ad oggi, non sono previste disposizioni specifiche che chiariscano le conseguenze per i datori di lavoro che violano il divieto di licenziamento. Tuttavia, si ritiene che una tale violazione comporti la nullità del licenziamento stesso e la reintegra del lavoratore nel suo posto di lavoro. 4 - Il difficile equilibrio tra libertà imprenditoriale e tutela dei lavoratori.Il divieto in questione limita in maniera abbastanza invasiva la libertà imprenditoriale dei datori di lavoro. Tuttavia, dall’altro lato, c’è l’esigenza di evitare che il prezzo della crisi dovuta all’emergenza Covid gravi in maniera insostenibile sulle spalle dei lavoratori. Non è affatto difficile immaginare quale sarebbe stato lo scenario degli ultimi mesi in mancanza del divieto di licenziamento: migliaia di piccole, medie e grandi imprese che, per cercare di ridurre l’impatto del Covid-19, avrebbero messo in atto consistenti ridimensionamenti ed esuberi di personale. Purtroppo, lo scenario appena descritto potrebbe essere stato solo rimandato di qualche mese. Resta infatti ancora da capire cosa succederà dal 1 aprile 2021, quando, salvo ulteriori proroghe, l’argine del divieto di licenziamento verrà meno. Editor: dott. Giovanni Fabris
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Scritto da:
Egregio Avvocato
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