Il patto di non concorrenza: di cosa si tratta?

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Pubblicato il 17 mag. 2021 · tempo di lettura 5 minuti

Il patto di non concorrenza: di cosa si tratta? | Egregio Avvocato
Il patto di non concorrenza previsto dall’art. 2125 c.c. accompagna spesso contratti di lavoro subordinato. Vediamo di cosa si tratta e quali sono i requisiti previsti ai fini della sua validità


  1. Il patto di non concorrenza: di cosa si tratta? Ricostruzione dell’istituto
  2. Il corrispettivo: l’ultima pronuncia della Cassazione 


1 - Il patto di non concorrenza: di che si tratta? Ricostruzione dell’istituto


L’art. 2125 c.c. definisce patto di non concorrenza il patto “con il quale si limita lo svolgimento dell'attività del prestatore di lavoro, per il tempo successivo alla cessazione del contratto”. 


Ai fini della sua validità, la disposizione in questione prevede che il predetto patto – accessorio al contratto di lavoro subordinato – sia redatto in forma scritta e contenga un corrispettivo a favore del prestatore di lavoro. Per quanto riguarda, invece, il vincolo previsto nel patto di non svolgere attività concorrenziale una volta cessato il rapporto di lavoro, è necessario che esso sia contenuto entro specificati i limiti di oggetto, di luogo e di tempo. Si tratta, dunque, di un contratto a titolo oneroso ed a prestazioni corrispettive, giacché, come anticipato, il prestatore di lavoro si impegna dopo la cessazione del rapporto di lavoro, a fronte di un corrispettivo, a non prestare attività concorrenziale in favore di altri soggetti. 


Sul piano degli interessi meritevoli di tutela regolati dal patto, secondo consolidata giurisprudenza, le clausole di non concorrenza sono finalizzate da un lato, a salvaguardare l’imprenditore da qualsiasi esportazione presso imprese concorrenti del patrimonio immateriale dell’azienda, trattandosi di un bene che assicura la sua resistenza sul mercato ed il suo successo rispetto alle aziende concorrenti, e dall’altro, a tutelare il lavoratore subordinato, affinché le dette clausole non comprimano eccessivamente le possibilità di poter indirizzare la propria attività lavorativa verso altre occupazioni, ritenute più convenienti (da ultimo, Cass. Sez. lav. n. 9790/2020).


Il patto può essere inserito direttamente nel contratto di lavoro o, in alternativa, essere contenuto in una lettera separata, ciò non rileva ai fini della validità del patto medesimo, essendo richiesto unicamente che la sua redazione avvenga in forma scritta, con la conseguenza che qualsivoglia intesa orale diretta a limitare la futura collocazione del lavoratore sul mercato, è radicalmente nulla per difetto di forma. 


Altro elemento imprescindibile ai fini della validità del patto è il suo oggetto: infatti, nonostante la generale formulazione della norma civilistica, si ritiene pacificamente che il patto di non concorrenza, seppur possa comprendere anche attività non propriamente rientranti nelle mansioni svolte dal dipendente, non debba comunque essere di “ampiezza tale da comprimere la esplicazione concreta della professionalità del lavoratore in limiti che compromettano ogni potenzialità reddituale” (Cass. Sez. lav., sent. 13282/2003). 


L’oggetto, pertanto, può anche essere esteso al di là delle mansioni espletate dal dipendente che ha sottoscritto il patto, ma il sacrificio richiesto a quest’ultimo non può essere tale da impedirgli di immettersi nuovamente sul mercato del lavoro una volta cessato il rapporto lavorativo con il precedente datore. 


Rispetto alle modalità di pagamento l’art. 2125 c.c. non prevede una apposita disciplina, ed infatti, parte della giurisprudenza ritiene che il corrispettivo possa essere corrisposto sia al termine del rapporto di lavoro ma anche in costanza di rapporto. In relazione a tale ultima modalità di pagamento, è stato ritenuto che la stessa non inficia la validità del patto e che il corrispettivo possa anche essere solo determinabile, poiché l’art. 2125 c.c. lascia alle parti ampia autonomia nella determinazione delle modalità di pagamento del corrispettivo, cosicché l’erogazione del corrispettivo potrà essere validamente pattuita sotto forma di percentuale sulla retribuzione o di somma da corrispondersi in costanza di rapporto (Trib. Milano, sent. 21 luglio 2005, in tal senso si è espresso anche il Tribunale di Pescara con la recente sentenza 10 luglio 2020, n. 267). In relazione a tale aspetto, si è tuttavia registrato anche un orientamento contrario secondo cui il pagamento del corrispettivo del patto in costanza di rapporto violerebbe l’art. 2125 c.c., introducendo una “variabile legata alla durata del rapporto stesso”, con conseguente aleatorietà del patto stesso. 


2 - Il corrispettivo: l’ultima pronuncia della Cassazione 


Avuto proprio riguardo al corrispettivo, si è pronunciata di recente la Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con la sentenza n. 5540 del 1° marzo 2021. Con tale pronuncia, la Cassazione ha stabilito che la nullità per indeterminatezza o indeterminabilità del corrispettivo (quale vizio del requisito di cui all’art. 1346 c.c.) e la nullità per violazione dell’art. 2125 c.c., laddove il corrispettivo “non è pattuito(ovvero sia simbolico, manifestamente iniquo o sproporzionato), operano su piani giuridicamente distinti ed ognuno di essi richiede una specifica motivazione. 


Pertanto – stabilisce l’ordinanza – “al fine di valutare la validità del patto di non concorrenza, in riferimento al corrispettivo dovuto, si richiede, innanzitutto, che, in quanto elemento distinto dalla retribuzione, lo stesso possieda i requisiti previsti in generale per l'oggetto della prestazione dall'art. 1346 c.c.; se determinato o determinabile, va verificato, ai sensi dell'art. 2125 c.c., che il compenso pattuito non sia meramente simbolico o manifestamente iniquo o sproporzionato, in rapporto al sacrificio richiesto al lavoratore e alla riduzione delle sue capacità di guadagno, indipendentemente dall'utilità che il comportamento richiesto rappresenta per il datore di lavoro e dal suo ipotetico valore di mercato, conseguendo comunque la nullità dell'intero patto alla eventuale sproporzione economica del regolamento negoziale”. In altri termini, la Cassazione ha chiarito che la valutazione circa la congruità del corrispettivo deve essere ricondotta unicamente all’alveolo dell’art. 2125 c.c. non dovendosi, quindi, confondere tale giudizio con la previsione di cui all’art. 1346 c.c. relativa alla determinatezza ovvero determinabilità riferibile al corrispettivo, giacché altrimenti si rischierebbe di dar vita ad una “sovrapposizione indebita che genera incertezza nell’iter logico seguito per il convincimento del giudicante, precludendo un effettivo controllo sull’esattezza e sulla logicità del ragionamento”.


Editor: avv. Francesca Retus

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Dopo la sentenza della Corte Costituzionale n. 59/2021, in caso di manifesta insussistenza del motivo oggettivo posto alla base del licenziamento, il giudice può ancora scegliere tra tutela indennitaria e reintegrazione in servizio?1.    Licenziamento per giustificato motivo oggettivo: breve excursus normativo e giurisprudenziale2.    Le modifiche introdotte dalla Legge n. 92/2012 all’apparato sanzionatorio3.    La recente pronuncia della Corte Costituzionale n. 59/20211 - Licenziamento per giustificato motivo oggettivo: breve excursus normativo e giurisprudenzialeIl licenziamento per giustificato motivo oggettivo trova la sua base normativa nell’art. 3 della Legge n. 604/1966 alla stregua del quale il datore di lavoro può procedere al licenziamento del dipendente per “ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”. 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Peraltro, la riduzione dell’attività aziendale può anche derivare dalla decisione imprenditoriale, per ottenere una gestione più economica e conveniente dell’impresa, di affidare a terzi parte delle attività in precedenza svolte all’interno dell’impresa,Ancora, secondo la giurisprudenza, il datore di lavoro è legittimato a procedere al licenziamento per ragioni oggettive nelle ipotesi di riorganizzazione ovvero di ristrutturazione dell’impresa nonché nei casi in cui decida di sopprimere la posizione lavorativa occupata dal dipendente. In tal caso, non occorre, ai fini della legittimità del licenziamento, che vengano soppresse tutte le mansioni affidate al dipendente essendo sufficiente la mera ridistribuzione di tali mansioni all’interno dell’organico aziendale.Negli ultimi anni la giurisprudenza è poi giunta a ritenere pienamente legittimo il licenziamento intimato per conseguire: “la migliore efficienza gestionale o anche l'esigenza d'incremento del profitto che si traducano in un effettivo mutamento dell'assetto organizzativo da attuare mediante soppressione di una posizione lavorativa possono integrare il giustificato motivo oggettivo di licenziamento”. (Cass. 25201/2016) chiarendo, quindi, che ai fini della legittimità del recesso, il datore di lavoro non è tenuto a dimostrare condizioni economiche sfavorevoli, giacché la norma di riferimento (art. 3 Legge n. 604/1966) non lo prevede.E’ bene precisare che le ragioni poste alla base di questo tipo di recesso, non sono sindacabili nel merito dall’autorità giudiziaria, in quanto espressione del principio di libera iniziativa economica di cui all’art. 41 Cost., pertanto, il giudice potrà limitarsi a verificare la sussistenza delle ragioni che hanno condotto al licenziamento del dipendente, il cui onere della prova grava sul datore di lavoro, quest’ultimo dovrà dimostrare, oltre all’effettiva esistenza delle ragioni poste alla base del licenziamento, anche di non aver potuto proficuamente ricollocare il dipendente all’interno dell’organico aziendale (cd. “obbligo di repêchage”).2 - Le modifiche introdotte dalla Legge n. 92/2012 all’apparato sanzionatorioPrima dell’avvento della Legge n. 92/2012 (cd. “Riforma Fornero”), secondo l’art. 18 della Legge n. 300/1970 (cd. Statuto dei Lavoratori) la mancata dimostrazione delle ragioni poste alla base del recesso ovvero la loro insussistenza conduceva il giudice del lavoro a dichiarare illegittimo il licenziamento e ad ordinare la reintegrazione in servizio del lavoratore illegittimamente licenziato. Tuttavia, l’apparato sanzionatorio introdotto dal noto art. 18 dello Statuto dei Lavoratori è stato profondamente modificato a seguito delle novelle introdotte dalla citata Legge n. 92/2012, riforma che ha inciso su tutte le sanzioni previste per le diverse tipologie di licenziamento individuale e collettivo. Per quanto concerne il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il novellato comma VII dell’art. 18, applicabile per tutti i lavoratori assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato in data anteriore al 7 marzo 2015 - valendo per gli assunti dopo tale data, il D.lgs. 23/2015 - nonché ai datori di lavoro imprenditori e non imprenditore che rispettano il requisito dimensionale di cui al VIII comma, art. 18), prevede che nelle ipotesi in cui il giudice accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo nonché nelle altre ipotesi in cui dovesse accertare che non ricorrono gli estremi del predetto giustificato motivo, possa disporre la reintegrazione in servizio del lavoratore illegittimamente licenziato ovvero dichiarare risolto e condannare il datore di lavoro a pagare una indennità risarcitoria compresa tra un minimo di dodici ed un massimo di ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, nella cui determinazione terrà conto, oltre ai criteri di cui al quinto comma dell’art. 18 (vale a dire, il numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell’attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti, con onere di specifica motivazione a tale riguardo), delle iniziative assunte dal lavoratore per la ricerca di una nuova occupazione e del comportamento delle parti nell'ambito della procedura di cui all’art. 7 Legge n. 604/1966 e successive modificazioni.3 - La recente pronuncia della Corte Costituzionale n. 59/2021Con la recentissima pronuncia n. 59/2021, la Corte Costituzionale è stata chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale dell’art. 18, comma VII, Legge n. 300/1970, laddove la disposizione consente al giudice di optare tra la reintegrazione in servizio ovvero, in luogo della tutela reintegratoria, di dichiarare definitivamente risolto il rapporto di lavoro e di condannare il datore di lavoro a corrispondere al lavoratore illegittimamente licenziato una indennità risarcitoria compresa tra un minimo di dodici ed un massimo di ventiquattro mensilità. Ebbene, secondo la Corte Costituzionale la norma in questione è viziata di incostituzionalità nella parte in cui, nell’ipotesi di manifesta insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, conceda al giudice di optare tra reintegrazione e tutela indennitaria, scelta che, al contrario, non è prevista per in caso di manifesta insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento intimato per giusta causa (e, quindi, per ragioni soggettive) . In questo caso, infatti, il giudice è sempre obbligato a disporre la reintegrazione in servizio. 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Lavorare in smart working

15 feb. 2021 tempo di lettura 3 minuti

Il grande protagonista di questo ultimo anno in campo giuslavoristico è senza dubbio il c.d. smart working (o lavoro agile). Da strumento resosi necessario per cercare di limitare il diffondersi della pandemia da Covid-19, tale modalità di svolgimento della prestazione lavorativa è ora al centro di numerosi dibattiti, nonché di proposte di riforma. Cerchiamo di approfondire meglio le caratteristiche principali di questo istituto.  Cosa prevede la normativa in tema di smart working?Qual è stato l’impatto del Covid sullo smart working?Alcune questioni sollevate dalla repentina diffusione dello smart working.Le prospettive di riforma dello smart working.1 - Cosa prevede la normativa in tema di smart working?Nel nostro ordinamento lo smart working è regolato da una manciata di articoli (appena 6) posti all’interno della legge n. 81/2017. Si tratta di un istituto relativamente recente che è stato introdotto allo scopo di incrementare la competitività e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro.In via generale, lo smart working si caratterizza per la possibilità di rendere la prestazione lavorativa anche all’esterno dei locali aziendali senza una postazione fissa e per la sua implementazione è richiesta la stipulazione di un accordo individuale tra il lavoratore interessato e il datore di lavoro. Inoltre, è previsto che il datore di lavoro debba garantire la salute e la sicurezza del lavoratore che svolge la prestazione in modalità agile. A tal fine è tenuto a consegnargli, con cadenza almeno annuale, un’informativa scritta nella quale sono individuati i rischi generali e i rischi specifici connessi alla particolare modalità di esecuzione del rapporto. 2 - Qual è stato l’impatto del Covid sullo smart working?Dato il necessario incremento del ricorso al lavoro agile a causa della pandemia, il Governo ha ritenuto opportuno cercare di semplificare il ricorso a tale modalità di svolgimento della prestazione prevedendo che: si possa procedere allo smart working anche senza la stipulazione di un accordo scritto individuale; eil datore possa assolvere ai suoi obblighi di informativa in tema di salute e sicurezza anche in via telematica. Tali modalità semplificate di utilizzo dello smart working sono state via via prorogate e, ad oggi, è previsto che restino in vigore fino al 31 marzo 2021. 3 - Alcune questioni sollevate dalla repentina diffusione del lavoro agileCon il diffondersi dello smart working, si sono diffusi anche alcuni dubbi interpretativi relativi ai diritti dei lavoratori che svolgono la propria prestazione secondo tale modalità. In particolare ci si è chiesti se i dipendenti in smart working abbiano diritto ai buoni pasto, agli straordinari, a un contributo per le maggiori spese che si rendono necessarie (e.g. internet, luce, ecc.). Andiamo con ordine: in relazione al diritto ai buoni pasto, alcuni autori rispondo in senso affermativo richiamandosi al fatto che la legge prevede che il lavoratore in smart working ha diritto ad un trattamento economico e normativo non inferiore a quello complessivamente applicato nei confronti dei lavoratori che svolgono le medesime mansioni in azienda. Tuttavia, l’opinione maggioritaria è che un vero e proprio diritto dei lavoratori ai buoni pasto non sussista (non costituendo il buono pasto un elemento della retribuzione). Nulla vieta tuttavia ai datori di lavoro di riconoscerli;per quanto riguarda il diritto a vedersi retribuite le ore di lavoro straordinario, la risposta è invece affermativa. Tuttavia, di prassi i datori di lavoro prevedono che le ore di straordinario debbano essere preventivamente autorizzate dal datore stesso. In tal modo, solo se preventivamente autorizzate diventano retribuibili; è invece tendenzialmente negata qualsiasi forma di rimborso delle maggiori spese che lo smart worker si ritrovi a sostenere (salvo, ovviamente, diversa disposizione all’interno degli accordi individuali). 4 - Le prospettive di riforma dello smart workingLe molteplici discussioni alimentate dalla diffusione del lavoro agile con ogni probabilità troveranno una sintesi all’interno di un intervento normativo di riforma. Intervento di cui si sta già discutendo e che secondo le prime indiscrezioni potrebbe contenere, inter alia, un rafforzamento del diritto alla disconnessione e l’introduzione di un ruolo anche per i sindacati, il cui coinvolgimento ad oggi non è previsto. Editor: dott. Giovanni Fabris 

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Emergenza Covid e divieto di licenziamento

14 gen. 2021 tempo di lettura 3 minuti

Con uno dei primi provvedimenti adottati per fronteggiare l’emergenza sanitaria tutt’ora in corso (il c.d. Decreto Cura Italia), il Governo si era preoccupato di vietare ai datori di lavoro di procedere al licenziamento del proprio personale per un periodo di 60 giorni. Con il perdurare della pandemia, tale divieto è stato via via prorogato fino ad oggi. Cerchiamo di capire di che cosa si tratta e di delineare con chiarezza i confini delle disposizioni rilevanti. Cosa prevede la normativa attualmente in vigore?Quali licenziamenti restano possibili?Quali conseguenze in caso di violazione del divieto di licenziamento?Il difficile equilibrio tra libertà imprenditoriale e tutela dei lavoratori.1 - Cosa prevede la normativa attualmente in vigore?L’attuale disciplina del divieto di licenziamento è contenuta all’interno della legge di bilancio per il 2021 e prevede limitazioni sia ai licenziamenti collettivi che ai licenziamenti individuali fino al 31 marzo 2021. In particolare:  è precluso l’avvio di nuove procedure di licenziamento collettivo e restano sospese quelle già pendenti avviate successivamente al 23 febbraio 2020; sono preclusi, a prescindere dal numero di dipendenti del datore di lavoro, i licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo e restano sospese le procedure già in corso davanti agli Ispettorati Territoriali del Lavoro (i.e. quelle procedure, obbligatorie nel caso in cui si intenda licenziare un dipendente assunto prima del 7 marzo 2015, finalizzate a ricercare soluzioni alternative al licenziamento). 2 - Quali licenziamenti restano possibili?Ragionando per differenza rispetto ai contenuti della norma sopra riportata, ne segue che restano implicitamente escluse dal divieto (e rimangono quindi possibili) alcune forme di licenziamento. Tra queste, le più importanti sono quelle aventi ad oggetto i licenziamenti disciplinari e i licenziamenti dei dirigenti. Inoltre, la stessa disciplina del divieto di licenziamento prevede espressamente che si possano comunque disporre i seguenti licenziamenti: licenziamenti motivati dalla cessazione definitiva dell’attività dell’impresa conseguenti alla messa in liquidazione della stessa (a meno che nel corso della liquidazione non si configuri un trasferimento d’azienda ex art. 2112 c.c.); licenziamenti che rientrano nell’ambito di un accordo collettivo aziendale di incentivo alla risoluzione dei rapporti di lavoro (ma solo per quei lavoratori che vi aderiscano); licenziamenti intimati in caso di fallimento, quando non sia previsto l’esercizio provvisorio dell’impresa o ne sia disposta la cessazione. Da ultimo, è opportuno segnalare che il divieto in esame non incide in alcun modo sulla possibilità di raggiungere accordi di risoluzione consensuale, che quindi restano un’utile via per cercare di gestire gli esuberi di personale.  3 - Quali conseguenze in caso di violazione del divieto di licenziamento?Ad oggi, non sono previste disposizioni specifiche che chiariscano le conseguenze per i datori di lavoro che violano il divieto di licenziamento. Tuttavia, si ritiene che una tale violazione comporti la nullità del licenziamento stesso e la reintegra del lavoratore nel suo posto di lavoro. 4 - Il difficile equilibrio tra libertà imprenditoriale e tutela dei lavoratori.Il divieto in questione limita in maniera abbastanza invasiva la libertà imprenditoriale dei datori di lavoro. Tuttavia, dall’altro lato, c’è l’esigenza di evitare che il prezzo della crisi dovuta all’emergenza Covid gravi in maniera insostenibile sulle spalle dei lavoratori. Non è affatto difficile immaginare quale sarebbe stato lo scenario degli ultimi mesi in mancanza del divieto di licenziamento: migliaia di piccole, medie e grandi imprese che, per cercare di ridurre l’impatto del Covid-19, avrebbero messo in atto consistenti ridimensionamenti ed esuberi di personale. Purtroppo, lo scenario appena descritto potrebbe essere stato solo rimandato di qualche mese. Resta infatti ancora da capire cosa succederà dal 1 aprile 2021, quando, salvo ulteriori proroghe, l’argine del divieto di licenziamento verrà meno. Editor: dott. Giovanni Fabris

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Pensioni e indennità ai familiari superstiti

27 set. 2021 tempo di lettura 4 minuti

In caso di morte del pensionato o del lavoratore in possesso dei requisiti di legge per il diritto alla pensione di vecchiaia o di invalidità, i familiari superstiti hanno diritto ad un trattamento pensionistico erogato dall’Inps.È necessario distinguere tra la pensione di reversibilità, che viene liquidata in seguito alla morte del pensionato, e la pensione indiretta, che viene liquidata in seguito alla morte dell’assicurato non titolare di pensione. La domanda di pensione ai superstiti può essere inoltrata all’Inps esclusivamente in via telematica attraverso il sito web, il telefono (tramite il contact center integrato) e i patronati. In presenza di quali presupposti ed a chi spetta la pensione? ed in quale misura?Chi sono i beneficiari della pensione?In che misura spetta la pensione?Da quando decorre il diritto alla pensione?Quando cessa il diritto alla pensione?1 – Chi sono i beneficiari della pensione?Presupposto per ottenere il trattamento pensionistico è la vivenza a carico del lavoratore al momento del decesso di determinati soggetti.Hanno diritto alla pensione i seguenti soggetti individuati dall’art. 13 RDL 636/39: a) coniuge o parte di un’unione civile; b) figli di età non superiore a 18 anni o di qualunque età se inabili al lavoro e a carico del genitore deceduto; c) in manca dei soggetti individuati al punto a), i genitori; d) in mancanza anche dei genitori, fratelli celibi e sorelle nubili. Quanto al coniuge superstite del pensionato o del lavoratore assicurato deceduto ha diritto automaticamente alla reversibilità del trattamento pensionistico.Tale diritto è riconosciuto anche al componente superstite dell’unione civile.Di regola, il coniuge separato, anche con addebito, ha diritto alla pensione di reversibilità. Secondo un primo orientamento occorre che il coniuge superstite sia beneficiario dell’assegno di mantenimento o dell’assegno alimentare a carico del coniuge deceduto; secondo un’altra tesi il diritto alla pensione sussiste a prescindere della previsione in sede di separazione dell’obbligo di versare l’assegno di mantenimento o alimentare.La pensione ai superstiti spetta al coniuge divorziato in presenza di tutte le seguenti condizioni:a) perfezionamento in capo al coniuge deceduto dei requisiti di assicurazione e contribuzione stabiliti dalla legge; b) inizio del rapporto assicurativo dell’assicurato o del pensionato precedente alla data della sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio; c) titolarità dell’assegno di divorzio in forza di una sentenza del Tribunale; d) assenza di un successivo rapporto di coniugio.Se l’ex coniuge deceduto si è rispostato, la pensione spetta sia al coniuge divorziato sia al coniuge superstite, a condizione che entrambi ne abbiano i requisiti. La ripartizione in quote dell’unico trattamento viene effettuata dal Tribunale, tenendo conto della durata dei rispettivi matrimoni. Con riferimento ai figli, anche adottivi e minori affidati, hanno diritto alla pensione se al momento della morte del genitore sono in possesso di uno dei seguenti requisiti: a) età fino ai 18 anni; b) età fino ai 21 anni, se studenti di scuola media o professionale, oppure fino a 26, se frequentanti corsi universitari, purchè siano a carico del genitore al momento del decesso e non prestino attività lavorativa retribuita; c) inabilità al lavoro e vivenza a carico del genitore al momento della morte.2 – In che misura spetta la pensione?La misura della pensione ai superstiti è stabilita in base alle aliquote indicate in una determinata tabella individuata dalla legge. La pensione ai superstiti non può, in ogni caso, essere complessivamente inferiore al trattamento minimo o superiore all’intero ammontare della pensione della quale era – o sarebbe stato – titolare il deceduto.La misura della pensione varia se il coniuge divorziato concorre con i seguenti soggetti: a) figli superstiti; b) genitori, fratelli o sorelle del pensionato o dell’assicurato: il coniuge divorziato esclude sia gli uni sia gli altri dal diritto alla pensione.3 - Da quando decorre il diritto alla pensione?La pensione decorre dal primo giorno del mese successivo a quello del decesso del pensionato o dell’assicurato, indipendentemente dalla data di presentazione della relativa domanda.La decorrenza è stabilita dal primo giorno del mese successivo a quello del decesso del dante causa.Alla presentazione della domanda si applica la prescrizione ordinaria prevista dall’art. 2946 c.c., ciò vuol dire che trascorsi 10 anni dal decesso i ratei di pensione non riscossi cadono in prescrizione e non possono essere più domandati.4 - Quando cessa il diritto alla pensione?Il diritto alla pensione cessa: a) per il coniuge se contrae nuovo matrimonio; b) per i figli al compimento del 18° anno di età, se studenti in casa di interruzione o conclusione del corso di studi oppure inizio di un’attività lavorativa, se inabili al venir meno dello stato di inabilità; c) per i genitori, se prendono un’altra pensione; d) per i fratelli celibi e le sorelle nubili, qualora contraggono matrimonio. Editor: avv. Elisa Calviello

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