Egregio Avvocato
Pubblicato il 13 mag. 2021 · tempo di lettura 4 minuti
I figli maggiorenni se da un lato non sono più giuridicamente soggetti ai diritti e ai poteri di indirizzo educativo dei genitori, dall’altro continuano ad essere titolari di un diritto generale al mantenimento il cui contenuto è abbastanza ampio in quanto vengono contemplate le esigenze di studio, di svago, di sport, di socializzazione e di cura della persona.
L’obbligo di mantenimento gravante sul genitore, dunque, non cessa automaticamente con il raggiungimento della maggiore età da parte del figlio ma, tuttavia, non può protrarsi illimitatamente nel tempo.
Secondo parte della dottrina, il mantenimento si protrae fino al momento in cui il figlio abbia conseguito una propria indipendenza economica e sia, quindi, in grado di provvedere in modo autonomo al soddisfacimento delle proprie esigenze.
Recentemente la Corte di Cassazione con l’ordinanza n.17183/2020 ha enunciato il principio dell’autoresponsabilità del figlio maggiorenne abbandonando, così, ogni forma di assistenzialismo.
1 – Qual è la durata dell’obbligo di mantenimento dei figli maggiorenni
Per anni la giurisprudenza ha ritenuto che il diritto del figlio ad essere mantenuto dai propri genitori non cessi automaticamente con il compimento della maggiore età, ma perduri – immutato – finché non sia stata data prova che il figlio abbia raggiunto l'indipendenza economica oppure che il mancato svolgimento di un'attività lavorativa dipenda da un atteggiamento di inerzia del figlio stesso o da un suo rifiuto ingiustificato.
Secondo il nuovo orientamento enunciato dalla Corte di Cassazione, con ordinanza n. 17183/2020, il figlio è in grado di provvedere a sé stesso non appena compie 18 anni, a meno che non dimostri di avere ancora diritto ad essere mantenuto dai genitori.
Tale orientamento ha la finalità di spronare il figlio a non adagiarsi, a non attendere e, al contrario, ad attivarsi proficuamente per il raggiungimento dei propri obiettivi.
Nel momento in cui il figlio, ha già concluso il suo percorso formativo e non trova un'occupazione compatibile con la sua preparazione, non potrà attendere che arrivi l'occasione lavorativa perfetta, ma deve andare a ridimensionare le proprie aspirazioni e rendersi indipendente.
Si afferma così il principio dell'autoresponsabilità: il figlio maggiorenne ha diritto ad essere mantenuto oltre il compimento dei 18 anni solo se dimostra di essere in possesso dei requisiti per beneficiare di tale contributo economico.
2 - Qual è l’onore della prova alla luce dell’ordinanza n. 17183/2020?
In base all'orientamento maggioritario, è il genitore obbligato al mantenimento che deve provare il raggiungimento dell'indipendenza economica da parte del figlio oppure il suo atteggiamento di inerzia nella ricerca di un lavoro compatibile con le sue attitudini e la sua professionalità o, ancora, il rifiuto da parte sua di occasioni di lavoro.
Con l’affermarsi del predetto principio di autoresponsabilità si sono registrate conseguenze rilevanti sul piano dell’onere della prova: secondo l'orientamento (innovativo) è il figlio che deve dimostrare di essersi adoperato effettivamente per rendersi autonomo economicamente, impegnandosi attivamente nella ricerca di un lavoro in base alle reali opportunità offerte dal mercato, ridimensionando – se necessario – le proprie aspirazioni, senza attendere una opportunità consona alle proprie aspirazioni.
La prova per il figlio sarà più agevole nel momento in cui la sua età è prossima a quella di un recente maggiorenne; di contro, la prova sarà sempre più gravosa man mano che l’età del figlio aumenti.
3 - È possibile il pagamento dell’assegno direttamente al figlio maggiorenne?
La Cassazione, in modo uniforme, ha precisato che, accanto al diritto del figlio al mantenimento, sussiste un autonomo e concorrente diritto del genitore con lui convivente a percepire il contributo dell’altro genitore alle spese necessarie per tale mantenimento (cfr. Cass. n. 25300/13; ord. n. 24316/13; Cass. 21437/2007; Cass. 4188/2006; 8007/2005).
Conseguentemente, il genitore separato o divorziato tenuto al mantenimento del figlio maggiorenne non economicamente autosufficiente e convivente con l’altro genitore non ha alcuna autonomia nella scelta del soggetto nei cui confronti adempiere l’obbligazione e pertanto non può pretendere di assolvere la propria prestazione nei confronti del figlio anziché del genitore convivente, il quale ha chiesto in sede giudiziale il mantenimento per il figlio. (cfr. Cass. civile, sez. I, ordinanza 09/07/2018 n. 18008).
Recentemente, la Cassazione con ordinanza n. 9700/2021 ha precisato che solo il giudice è autorizzato a riconoscere al figlio il pagamento diretto del mantenimento del genitore obbligato, in quanto il mantenimento per i figli risponde a un loro interesse superiore che è sottratto alla disposizione dalle parti.
Solo la domanda autonoma del figlio ad ottenere il mantenimento diretto può negare il concorrente diritto del genitore convivente a percepire il relativo assegno, dimostrando così la volontà dell’avente diritto di gestire autonomamente le risorse destinate al suo mantenimento.
4 - Allo studente fuori sede spetta un aumento dell’assegno?
L’aumento delle esigenze del figlio è notoriamente legato alla sua crescita e allo sviluppo della sua personalità in svariati ambiti, compreso quello della formazione culturale e della vita sociale.
Tale aumento non ha bisogno di una specifica dimostrazione, e di per sé legittima la revisione dell’assegno di mantenimento, anche in mancanza di evoluzioni migliorative delle condizioni patrimoniali del genitore tenuto alla contribuzione.
E’, dunque, giustificata la maggiorazione dell’assegno di mantenimento in favore del figlio maggiorenne dedito agli studi universitari in un luogo diverso da quello di residenza.
Editor: Avv. Elisa Calviello
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Egregio Avvocato
12 apr. 2025 • tempo di lettura 0 minuti
Il presente elaborato consiste in una analisi della più recente giurisprudenza di legittimità relativamente al concetto di "normale tollerabilità" nella disciplina delle immissioni ex art. 844 C.C. e del suo rapporto con i criteri della priorità d'uso e delle esigenze di produzione.Pubblicato il 22.09.2018 su Salvis Juribus (ISSN 2464-9775). Clicca qui per leggere l'articolo.
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28 dic. 2020 • tempo di lettura 3 minuti
La legge riconosce l’agevolazione fiscale dal pagamento dell’imposta IMU nei confronti degli immobili considerati “abitazione principale” ovvero il luogo di residenza e di dimora abituale dell’intero nucleo familiare. Ma se il nucleo familiare si divide, allora cosa succede? Se due coniugi si separano o divorziano, potranno ancora beneficiare dell’esenzione IMU sulla ex casa coniugale? E cosa avviene se l’immobile viene assegnato ad uno dei due coniugi dopo la separazione? Cosa è l’IMU? Quali sono gli immobili esentati dal pagamento?Quando un immobile può essere considerato “abitazione principale”?Chi deve pagare l’IMU?A chi spetta pagare l’IMU se i coniugi comproprietari dell’immobile sono separati?1 - Cosa è l’IMU? Quali sono gli immobili esentati dal pagamento?L’imposta municipale unica (IMU) è un’imposta locale dovuta dai proprietari di immobili, aree fabbricabili o terreni, in favore del Comune. Sono esentate dal pagamento le abitazioni principali, salvo che siano “abitazioni di lusso” - classificate nelle categorie catastali A/1 A/8 o A/9 - e le loro pertinenze - classificate nelle categorie catastali C/2, C/6 e C/7 - nella misura massima di un’unità pertinenziale per ciascuna categoria catastale. 2 - Quando un immobile può essere considerato “abitazione principale”?Con abitazione principale si intende l’unità immobiliare ove il nucleo familiare o un singolo individuo dimorano stabilmente e risiedono. Pertanto, devono essere contemporaneamente presenti 3 condizioni:il possesso/proprietà dell’immobile (o altro titolo reale: usufrutto, diritto di abitazione);la residenza anagrafica;la dimora abituale e stabile.In pratica, l’abitazione principale (o prima casa) è quella in cui si ha sia la residenza che il domicilio.Dunque, se si possiede un immobile in una città ma si ha il proprio domicilio altrove, questo non potrà essere considerato prima casa – e di conseguenza non sarà esentato dall’imposta IMU – anche se il soggetto non è proprietario di altri immobili. La tassa può essere pagata in due rate annuali, con scadenza 16 giugno e 16 dicembre, o in un’unica soluzione ed il suo ammontare varia a seconda delle aliquote applicate dal Comune in cui ha sede l’immobile. 3 - Chi deve pagare l’IMU?Sono tenuti al versamento del tributo i proprietari di casa, i titolari di diritti reali di godimento sull’immobile (diritto di usufrutto, di uso, di abitazione, di enfiteusi o di superficie) ed il locatario in caso di leasing.Se l’immobile appartiene a più comproprietari, oppure sullo stesso bene gravano più diritti reali, ciascun proprietario/possessore dell’immobile è tenuto a pagare l’IMU in percentuale della propria quota. 4 - A chi spetta pagare l’IMU se i coniugi comproprietari dell’immobile sono separati?La regola generale stabilisce che, a seguito di separazione legale, annullamento, scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, il coniuge assegnatario della casa coniugale è tenuto a pagare l’IMU. Infatti, attraverso il provvedimento del giudice (omologa) che dichiara l’immobile abitazione familiare, in capo al coniuge assegnatario sorge il diritto di abitazione nella casa coniugale, indipendentemente dall’esistenza di un diritto di proprietà altrui sull’immobile. In questi casi, la casa coniugale rientra nel novero, ai fini IMU, delle abitazioni assimilate per legge alla principale. Pertanto, il coniuge assegnatario della casa coniugale sarà esentato dal pagamento del tributo. Questo a meno che, come già detto, l’abitazione non sia classificata come immobile di lusso (categorie catastali A1, A8, A9). In questo caso, invece, l’IMU è dovuta.L’assegnazione della abitazione familiare ad un coniuge, fa sì che l’altro (ovvero il coniuge non assegnatario) rimanga solo “nudo proprietario” dell’immobile e non abbia la piena disponibilità, fino alla sussistenza del diritto di abitazione. Pertanto, il coniuge non assegnatario - spogliato dei suoi diritti di godimento sull’immobile - non sarà tenuto al pagamento dell’IMU, che sarà esclusivamente a carico del coniuge assegnatario, titolare del diritto di abitazione. In conclusione, poiché dal 2014 non è dovuta l’IMU sull’abitazione principale e dal momento che la casa coniugale è considerata per legge abitazione principale, finché sussiste il diritto di abitazione, né il coniuge assegnatario né il coniuge non assegnatario saranno tenuti pagare l’imposta.
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Egregio Avvocato
27 nov. 2024 • tempo di lettura 3 minuti
Spesso si sente parlare di affidamento paritetico, ma non a tutti è ben chiaro il significato e la portata di un tale concetto. Oggi vogliamo approfondire tale problematica alla luce di recenti statuizioni giurisprudenziali.Preliminarmente, occorre chiedersi se, da un punto di vista giurisprudenziale e, soprattutto, umano sia possibile permettere ad un minore di vivere alternativamente col padre e con la madre. La Giurisprudenza appare profondamente divisa sul punto: alcuni Tribunali sembrano accordarla "laddove ve ne siano le condizioni di fattibilità e, quindi, tenendo sempre in considerazione le caratteristiche del caso concreto (quali l’età del minore, gli impegni lavorativi di ciascuno dei genitori, la disponibilità di un’abitazione dignitosa per la crescita dei figli, ecc...)” (Trib. Catanzaro, 28 /02/ 2019 n. 443). Al riguardo, si osserva che il collocamento del minore presso entrambi i genitori, in modo paritetico, rispetta il principio della bigenitorialità e tiene conto in via prioritaria delle esigenze della figlia (Tribunale Roma sez. I, 26/03/2019, n.6447).Recentemente, il Tribunale di Palermo, con una storica sentenza (Trib. Palermo, 26/01/2024) ha dato un'interpretazione particolare ed interessante, stabilendo che “l’articolo 337 ter del codice civile non si riferisce esclusivamente all’affidamento legale condiviso ma anche alla custodia fisica condivisa, lasciando quindi propendere per la preferibilità del collocamento paritetico” ed accogliendo in tal modo le richieste formulate dallo stesso minore capace di discernimento. La decisione ha fatto molto discutere non solo perché per la prima volta, in Sicilia i giudici hanno riconosciuto l’affidamento paritario, ma anche e soprattutto perché la decisione è stata motivata con un'interpretazione estensiva dell'art. 337 c.c., aprendo e porte ad un dibattito dottrinario e giurisprudenziale che non accennerà a placarsi nei mesi a venire.Parimenti, però, alcuni Giudici di merito hanno rilevato che " la proposta di doppio domicilio presso le abitazioni dei genitori con un regime di frequentazione paritario ed alternato non corrisponde all’esigenza di serenità dei minori assicurata dalla sicurezza di avere un ambiente di vita stabile e duraturo che solo la permanenza presso la casa familiare dove i minori hanno vissuto finora può garantire.” (Tribunale Velletri sez. I, 06/05/2020, n.680) In altre parole, l'affido paritetico "non appare confacente all’interesse supremo dei minori ad avere un unico e stabile domicilio.” (Tribunale Velletri sez. I, 06/05/2020, n.680). Recentemente, la Suprema Corte (Cass. 24 febbraio 2023, N. 5738) ha sottolineato che "le statuizioni relative all’esercizio della responsabilità genitoriale, non possono fondarsi su una ratio implicita o essere desunto per relationem come effetto automaticamentediscendente da altre disposizioni giudiziali quali quella sul diritto di visita paritetico, richiedendouna specifica ed autonoma valutazione dell’interesse del minore in relazione alla sua adozione e al suo contenuto prescrittivo". Questo è, appunto, ciò che noi abbiamo sempre sostenuto sia nelle aule di Tribunale che nei dibattiti dottrinari cui siamo intervenuti. In altre parole, solo in casi concreti e specifici l'affido paritetico può essere disposto e, in ogni caso, a condizione che esso soddisfi i reali interessi del minore, e non, invece, il desiderio degli ex partner. Resta da vedere se questo orientamento di parte della Giurisprudenza di merito e di legittimità verrà condiviso unanimemente. L'affido condiviso, poi, comporta anche interessanti conseguenze in merito all'assegno di mantenimento. Di questo, però, ce ne occuperemo in altra sede.
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1 mar. 2021 • tempo di lettura 8 minuti
Decidiamo di vendere il terreno del nonno ma scopriamo che l’acquisto dello stesso non è mai stato trascritto nei Pubblici Registri, cosa dobbiamo fare?Le migrazioni in sud-America e negli Stati Uniti di fine ottocento e, più di recente, degli anni sessanta hanno implicato uno spostamento all’estero di interessi ed affari di tanti nostri connazionali, i quali hanno spesso abbandonato i propri fondi senza più farvi ritorno. Inoltre spesso accadeva che i proprietari confinanti o limitrofi iniziassero ad utilizzare siffatti fondi, ad esempio coltivandoli e godendo dei relativi frutti. Altre volte, i migranti, prima di partire, erano soliti vendere il bene, a mezzo della c.d. “stretta di mano” oppure tramite una semplice scrittura privata e, quindi, senza provvedere alla relativa trascrizione nei Pubblici Registri. Come noto, a mezzo dell’usucapione, il possessore uti dominus, può richiedere l’accertamento giudiziale dell’acquisto a titolo originario della proprietà del bene per poi procedere al trasferimento della proprietà dello stesso a terzi. L’accertamento giudiziale dell’usucapione risulta però spesso molto complesso e costoso, specialmente quando il proprietario originario sia di difficile reperibilità o il valore del terreno sia esiguo. Esiste allora una via più semplice per procedere al trasferimento della proprietà di un bene immobile ad un terzo da parte di chi non risulta l’effettivo intestatario del bene immobile nei Pubblici Registri? La vendita per possesso. Il caso: la complessità dell’accertamento giudiziale dell’intervenuta usucapione.L’istituto della vendita per possesso. I rischi connessi all’istituto in questione. 1 - Il caso: la complessità dell’accertamento giudiziale dell’intervenuta usucapione.Non è raro che il proprietario di un immobile (solitamente un terreno), abbandoni la sua proprietà, magari per un trasferimento all’estero, e che questa venga di fatto acquisita da un vicino, il quale inizia ad utilizzarla (magari anche coltivandola e godendo dei frutti) per molti anni, come se fosse il legittimo proprietario. Ma non solo. Soprattutto molti anni fa, quando ancora la digitalizzazione era scarsa e i mezzi informativi non erano facilmente accessibili, accadeva spesso che la vendita di un bene immobile (prevalentemente di terreni) venisse effettuata a mezzo di una semplice scrittura privata o, addirittura, tramite la cosiddetta “stretta di mano” e, quindi, senza la trascrizione nei Pubblici Registri del relativo atto di vendita. In siffatte circostanze, se a distanza di diversi anni, l’utilizzatore (rectius: il possessore) del terreno o, comunque, colui che si ritiene il legittimo proprietario decide di venderlo, donarlo a un proprio figlio o, più in generale, disporne, cosa può fare? In questi casi, lo strumento fornito dal codice civile è l’usucapione, istituto molto noto, a mezzo del quale il possessore del bene può acquisirne (a titolo originario) la titolarità, se dimostra di aver posseduto il bene ininterrottamente per 20 anni (nel caso di usucapione ordinaria ex art. 1158 c.c.) o 10 anni (per il caso di usucapione abbreviata per i beni immobili, al ricorrere delle circostanze di cui all’art. 1159 c.c.). L’acquisto del diritto in forza di usucapione richiede però l’intervento dell’autorità giurisdizionale. Per quanto l’acquisto del diritto in forza di usucapione avvenga ex lege, nel momento in cui matura il termine previsto dalla legge, l’usucapiente, per disporre del bene, deve fare accertare la sua proprietà del bene, ottenendo così un titolo utile per la trascrizione. A tal fine è necessario un giudizio di accertamento dell’intervenuta usucapione, a conclusione del quale il giudice accerta l’effettivo acquisto originario per usucapione. Solo a seguito di tale giudizio, conclusosi positivamente per l’usucapiente, lo stesso potrà trascrivere il proprio titolo di acquisto nei Pubblici Registri e procedere così alla vendita del bene a terzi. Non v’è dubbio, però, che il giudizio di accertamento dell’avvenuta usucapione potrebbe essere molto lungo e altresì costoso, soprattutto a fronte di terreni di modestissimo valore, costituendo di fatto un duro ostacolo.Ma vi è di più! Quando il proprietario originario del bene e i suoi eredi sono sconosciuti o di difficile reperibilità oppure quando lo stesso è deceduto senza lasciare eredi, l’accertamento giudiziale si complica ancora di più, essendo di fatto irreperibile il soggetto nei cui confronti rivolgere la domanda giudiziale. In questi casi, la giurisprudenza è orientata nel ritenere necessaria l’instaurazione della preventiva procedura di nomina di un curatore dello scomparso ai sensi dell’articolo 48 c.c., per poi intraprendere, nei confronti del nominato curatore in detta sua qualità, la causa di usucapione. Insomma le cose si complicano e non poco! Si è allora giunti ad una soluzione: la vendita per possesso.2 - L’istituto della vendita per possessoLa vendita per possesso è un modo di trasferimento della proprietà di un bene immobile ad un terzo da parte di chi non risulta effettivo proprietario di tale bene nei Pubblici Registri, ma che dichiara di fronte al Notaio nell’atto di vendita e sotto la propria responsabilità di esserne il vero ed effettivo proprietario, e ciò per aver esercitato sul bene il possesso ad usucapionem richiesto dalla legge. Il terzo acquirente diventa così proprietario del bene e il Notaio provvede alla relativa trascrizione nei Pubblici Registri del passaggio di proprietà. Si comprende subito come non sia così necessario il passaggio giudiziale per l’accertamento dell’avvenuta usucapione, il quale è come se avvenisse direttamente di fronte al Notaio. Come si può ben immaginare l’istituto è stato molto dibattuto in dottrina. Eppure sono ormai molte le voci a favore della sua legittimità, supportate anche da una pronuncia della Corte di legittimità di cui si dirà a breve. In particolare, si sono spesso richiamati a supporto della legittimità dell’istituto diversi istituti e discipline, anche indirette, quali la vendita di cose altrui e altre fattispecie che ammettono forme di accertamento di situazioni giuridiche che prescindono dall’intervento giudiziale. Tra queste ultime, ad esempio, l’art. 2655, ult. comma c.c., in tema di accertamento della nullità di un negozio o, ancora, la possibilità riconosciuta alle parti, da dottrina e giurisprudenza, di “accertare” in contratto i presupposti di una servitù legale, senza richiedere la sentenza costitutiva ex art. 1032 c.c., e così via. Si richiama spesso, inoltre, all’art. 1159 c.c. relativo all’usucapione breve o decennale, ai sensi del quale “colui che acquista in buona fede da chi non è proprietario un immobile in forza di un titolo a trasferire la proprietà e che sia stato debitamente trascritto, ne compie l’usucapione in suo favore col decorso di dieci anni dalla data della trascrizione”. La previsione dell’usucapione breve sembrerebbe fare espresso riferimento a un titolo atto a trasferire la proprietà e che sia stato regolarmente trascritto. Tra queste tipologie di titoli, oltre ovviamente alle sentenze, vi sono gli atti pubblici e le scritture private autenticate. Per questa ragione è parso ragionevole ritenere che tale norma faccia riferimento all’atto notarile mediante il quale viene trasferita la proprietà da parte di chi non è proprietario.A supporto di quanto detto, uno studio del Consiglio Nazionale del Notariato (n. 176-2008/c), riguardante l’ammissibilità di un’attività accertativa negoziale che surroghi l’accertamento giurisdizionale, sottolinea come il notaio possa non solo stipulare un atto di trasferimento della proprietà “per possesso” ma “addirittura consigliare la cessione di un bene solo dichiarato usucapito dal venditore quando vi siano buoni motivi per derogare al criterio della pronuncia giudiziale”. Tale studio riporta, inoltre, in via esemplificativa, alcuni buoni motivi per la vendita per possesso, come la modestia del valore del bene che non giustifica le spese giudiziali, la necessità pratica di un trasferimento immediato, l’estrema difficoltà di individuare l’originario proprietario e così via. Le stesse conclusioni sono confermate dallo studio del Consiglio Nazionale del Notariato n. 718/2013. A supporto dell’ammissibilità dell’istituto in questione, una sentenza della Corte di Cassazione (n. 2485 del 5.02.2007), ha statuito che non sussiste la responsabilità per negligenza professionale del notaio nelle ipotesi in cui lo stesso stipuli una vendita di terreni per i quali l’alienante assume solo di aver acquistato la proprietà per usucapione senza relativo accertamento giudiziale, quando risulti che l’acquirente sia stato ben conscio dei rischi relativi; ammettendo così la possibilità di effettuare la vendita per possesso. Si considera dunque che chi ritiene di avere usucapito un bene possa disporre dello stesso, pur in assenza di pronuncia giurisdizionale, e che l’atto dispositivo di tale bene possa essere trascritto, essendo insuscettibile di pubblicità immobiliare solo l’alienazione di bene dichiaratamente altrui. La vendita per possesso si giustifica, in ogni caso, in circostanze del tutto particolari, come ad esempio il confronto fra il costo della procedura e l’esiguità del valore del bene trasferito. Un siffatto esito interpretativo è stato comunque accompagnato (v. Studio n. 176-2008/C e Cass. n. 2485/2007) alla più ferma raccomandazione rivolta al Notaio affinché informi adeguatamente il cessionario dei pericoli e dei rischi economici connessi ad un acquisto per il quale, a monte, non esiste la sicurezza della proprietà in capo al disponente, stante la possibilità che possa successivamente intervenire una sentenza che dichiari la mancata usucapione.3 - I rischi connessi all’istituto in questioneNei paragrafi precedenti si è fatto più volte riferimento ai rischi connessi alla modalità di trasferimento del diritto di proprietà in questione.È chiaro che un’incertezza si pone in riferimento alla possibilità che l’originario proprietario del bene possa rivendicarne la proprietà. Lo stesso infatti potrebbe agire in giudizio per impugnare la dichiarazione che l’alienante, sotto la propria responsabilità, ha reso nell’atto pubblico notarile, chiedendo l’accertamento delle mancate circostanze per ritenere il bene usucapito dall’alienante e rivendicando dunque la proprietà del bene. Nell’ipotesi in cui l’originario proprietario ottenga una pronuncia a suo favore contro l’alienante, quest’ultimo è tenuto a risarcire il danno nei confronti dell’acquirente. Si rammenta, in ogni caso, che l’originario intestatario dell’immobile, per non incorrere nella barriera preclusiva della prescrizione, può contestare la dichiarazione di usucapione dell’alienante entro dieci anni dalla trascrizione della compravendita. Editor: dott.ssa Stefania Cirillo
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