Avv. Marco Mezzi
Ai sensi dell’articolo 587 del codice civile il testamento può definirsi come l’atto con cui un soggetto dispone, per il tempo in cui non sarà più in vita, di tutte o parte delle proprie sostanze.
Ma quante e quali sono le tipologie di testamento? Sono previsti casi in cui è possibile impugnare il testamento?
Oltre a fornire la definizione di testamento quale atto revocabile con il quale taluno dispone, per il tempo in cui avrà cessato di vivere, di tutte le proprie sostanze o di parte di esse, la legge disciplina tre diverse tipologie di testamento: il testamento olografo, il testamento pubblico e il testamento segreto.
Il testamento olografo è, in buona sostanza, la tipologia “più semplice” di testamento.
Difatti, è sufficiente che sia scritto per intero, datato e sottoscritto di proprio pugno dal testatore.
Il testamento pubblico, al contrario, deve essere necessariamente redatto da un notaio alla presenza di due testimoni che non devono essere interessati all’atto.
Tale tipologia di testamento deve essere redatto rispettando alcune formalità. In particolare: a) il testatore deve dichiarare oralmente al notaio, alla presenza dei due testimoni, le sue ultime volontà, in modo assolutamente spontaneo e libero; b) il notaio, seguendo le disposizioni dettategli dal testatore, provvede alla materiale redazione dell’atto, dandone lettura al termine e apponendo indicazione del luogo, della data e dell’ora in cui il testamento è stato redatto; c) il testatore, i testimoni e il notaio devono provvedere a sottoscrivere il testamento.
Il testamento segreto, infine, è preparato dallo stesso testatore e consegnato a un notaio, il quale ha l’unico compito di custodirlo e redigere l’atto di ricevimento.
Tutte e tre le citate tipologie di testamento possono essere affette da determinati vizi che consentono, a chi ne ha interesse, di proporre impugnazione.
Per brevità di trattazione, è possibile affermare che le ragioni che giustificano l’impugnazione del testamento sono: a) l’incapacità del testatore, b) la violazione degli obblighi di forma del testamento, c) la violazione del contenuto del testamento, d) la redazione del testamento in presenza di un vizio della volontà del testatore, vale a dire in presenza di errore, violenza o dolo.
Ognuna di queste motivazioni giustificatrici dell’impugnabilità del testamento conduce a una differente forma di invalidità. In particolare, il testamento può essere annullabile oppure nullo.
L’annullabilità del testamento segue la violazione delle norme che sono dettate in materia di difetto di capacità, vizi della volontà e ogni altro vizio meno grave di carattere formale.
In primo luogo, è opportuno ricordare che non possono fare testamento i minori di età, gli interdetti per infermità mentale e coloro i quali, sebbene non interdetti, siano stati, anche in via transitoria, incapaci di intendere o di volere al momento della redazione del testamento.
Laddove uno di questi soggetti abbia redatto un testamento, lo stesso può essere impugnato da chiunque vi abbia interesse, proponendo azione di annullabilità che si prescrive nel termine di cinque anni dal giorno in cui è stata data esecuzione alle disposizioni testamentarie.
Inoltre, il testamento può essere impugnato al fine di dichiararne l’annullabilità anche in presenza dei vizi del volere del testatore che, come anticipato, si hanno nell’ipotesi di errore, violenza o dolo. Anche in tal caso, l’impugnazione può essere proposta da chiunque ne abbia interesse nel termine di cinque anni dal giorno in cui si è avuta notizia del dolo, della violenza o dell’errore.
In particolare, è annullabile il testamento redatto sulla base di convinzioni errate (errore), oppure redatto deitro la minaccia di un male ingiusto e notevole (violenza psicologica o morale) ed infine il testamento scritto dietro l’inganno di terzi (dolo).
La nullità del testamento è una forma di invalidità certamente più grave dell’annullabilità. Difatti, la nullità può essere fatta valere impugnando il testamento in qualsiasi momento, a differenza della causa di annullabilità che viene sanata laddove non si proponga impugnazione entro cinque anni.
Il codice civile prevede che il testamento sia nullo laddove manchi l’autografia o la sottoscrizione nell’ipotesi di testamento olografo. In caso di testamento pubblico, invece, lo stesso sarà nullo laddove manchi la redazione per iscritto, da parte del notaio, delle dichiarazioni del testatore ovvero la sottoscrizione dell’uno o dell’altro.
Svariate sono le cause di nullità previste dal codice civile del nostro ordinamento. È possibile, tuttavia, elencare le principali cause di nullità.
Innanzitutto, è nullo il c.d. testamento congiuntivo semplice o reciproco. Il primo è il testamento redatto da due persone nel medesimo documento a favore di un soggetto terzo, mentre il secondo è quello in cui i testatori dispongono dei propri beni uno a favore dell’altro.
Sono altresì nulle le disposizioni testamentarie rimesse all’arbitrio di un soggetto terzo, nonché quelle che siano illecite, impossibili o che perseguano motivi illeciti.
Ovviamente nullo è il testamento redatto a seguito della violenza fisica esercitata sul testatore.
Sono, infine, nulle le disposizioni a favore di una persona indeterminata.
Oltre ai casi di impugnazione per annullabilità o nullità del testamento, vi è un’ulteriore possibilità di impugnare il testamento.
Si tratta dell’impugnazione per lesione di legittima.
Prescindendo dalla presenza di un testamento, la legge prevede che determinati soggetti hanno diritto all’eredità. Si tratta dei c.d. eredi legittimari che, per legge, sono il coniuge, i figli e, in assenza di questi ultimi, gli ascendenti.
Orbene, a tali soggetti spetta necessariamente una quota dell’eredità, per l’appunto la quota di legittima.
L’azione di impugnazione del testamento per lesione della quota di legittima consente di ridefinire l’asse ereditario.
Difatti, l’azione di riduzione è quell’azione volta a tutelare le quote di legittima spettanti ai legittimari. In particolare, l’erede legittimario che ritenga di aver ricevuto meno di quanto gli spetterebbe per legge può impugnare il testamento.
In particolare, per poter esercitare tale azione l’erede legittimario deve, innanzitutto, accettare il testamento con beneficio di inventario; dopodiché potrà impugnare il testamento entro il termine di dieci anni dalla data di accettazione, sebbene una parte minoritaria della giurisprudenza ritenga che i dieci anni decorrano dall’apertura della successione.
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24 mar. 2025 • tempo di lettura 3 minuti
Spesso si sente parlare di affidamento paritetico, ma non a tutti è ben chiaro il significato e la portata di un tale concetto. Oggi vogliamo approfondire tale problematica alla luce di recenti statuizioni giurisprudenziali.Preliminarmente, occorre chiedersi se, da un punto di vista giurisprudenziale e, soprattutto, umano sia possibile permettere ad un minore di vivere alternativamente col padre e con la madre. La Giurisprudenza appare profondamente divisa sul punto: alcuni Tribunali sembrano accordarla "laddove ve ne siano le condizioni di fattibilità e, quindi, tenendo sempre in considerazione le caratteristiche del caso concreto (quali l’età del minore, gli impegni lavorativi di ciascuno dei genitori, la disponibilità di un’abitazione dignitosa per la crescita dei figli, ecc...)” (Trib. Catanzaro, 28 /02/ 2019 n. 443). Al riguardo, si osserva che il collocamento del minore presso entrambi i genitori, in modo paritetico, rispetta il principio della bigenitorialità e tiene conto in via prioritaria delle esigenze della figlia (Tribunale Roma sez. I, 26/03/2019, n.6447).Recentemente, il Tribunale di Palermo, con una storica sentenza (Trib. Palermo, 26/01/2024) ha dato un'interpretazione particolare ed interessante, stabilendo che “l’articolo 337 ter del codice civile non si riferisce esclusivamente all’affidamento legale condiviso ma anche alla custodia fisica condivisa, lasciando quindi propendere per la preferibilità del collocamento paritetico” ed accogliendo in tal modo le richieste formulate dallo stesso minore capace di discernimento. La decisione ha fatto molto discutere non solo perché per la prima volta, in Sicilia i giudici hanno riconosciuto l’affidamento paritario, ma anche e soprattutto perché la decisione è stata motivata con un'interpretazione estensiva dell'art. 337 c.c., aprendo e porte ad un dibattito dottrinario e giurisprudenziale che non accennerà a placarsi nei mesi a venire.Parimenti, però, alcuni Giudici di merito hanno rilevato che " la proposta di doppio domicilio presso le abitazioni dei genitori con un regime di frequentazione paritario ed alternato non corrisponde all’esigenza di serenità dei minori assicurata dalla sicurezza di avere un ambiente di vita stabile e duraturo che solo la permanenza presso la casa familiare dove i minori hanno vissuto finora può garantire.” (Tribunale Velletri sez. I, 06/05/2020, n.680) In altre parole, l'affido paritetico "non appare confacente all’interesse supremo dei minori ad avere un unico e stabile domicilio.” (Tribunale Velletri sez. I, 06/05/2020, n.680). Recentemente, la Suprema Corte (Cass. 24 febbraio 2023, N. 5738) ha sottolineato che "le statuizioni relative all’esercizio della responsabilità genitoriale, non possono fondarsi su una ratio implicita o essere desunto per relationem come effetto automaticamentediscendente da altre disposizioni giudiziali quali quella sul diritto di visita paritetico, richiedendouna specifica ed autonoma valutazione dell’interesse del minore in relazione alla sua adozione e al suo contenuto prescrittivo". Questo è, appunto, ciò che noi abbiamo sempre sostenuto sia nelle aule di Tribunale che nei dibattiti dottrinari cui siamo intervenuti. In altre parole, solo in casi concreti e specifici l'affido paritetico può essere disposto e, in ogni caso, a condizione che esso soddisfi i reali interessi del minore, e non, invece, il desiderio degli ex partner. Resta da vedere se questo orientamento di parte della Giurisprudenza di merito e di legittimità verrà condiviso unanimemente. L'affido condiviso, poi, comporta anche interessanti conseguenze in merito all'assegno di mantenimento. Di questo, però, ce ne occuperemo in altra sede.
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12 mag. 2022 • tempo di lettura 6 minuti
Il riconoscimento è l’atto con il quale uno o entrambi i genitori dichiarano di essere padre o madre di un infante nato al di fuori del matrimonio. Difatti, non è necessario procedere al riconoscimento nel caso di coppie sposate poiché, in questo caso, si presume che il figlio sia nato dalla coppia di coniugi.Sebbene, di norma, il riconoscimento avviene dopo la nascita del bambino, è possibile effettuare il riconoscimento anche prima della nascita. Il riconoscimento dei figli nati fuori dal matrimonio: cos’è?Il riconoscimento prima della nascita: chi può farlo? Quale procedura occorre seguire?Cognome e nome del nascituro1 - Il riconoscimento dei figli nati fuori dal matrimonio: cos’è?Quando nasce un figlio tra due persone che non hanno contratto matrimonio, ciascuna di esse ha il diritto di riconoscerlo personalmente e spontaneamente. Difatti, l’articolo 250, primo comma, del codice civile stabilisce che il figlio nato fuori dal matrimonio può essere riconosciuto, nei modi previsti dall’articolo 254, dal padre e dalla madre, anche se già uniti in matrimonio con altra persona all’epoca del concepimento. Il riconoscimento può avvenire tanto congiuntamente quanto separatamente.Ma come avviene il riconoscimento dei figli nati fuori dal matrimonio?Sul punto interviene l’articolo 254 del codice civile, a norma del quale il riconoscimento del figlio nato fuori dal matrimonio è fatto nell’atto di nascita, oppure con una apposita dichiarazione, posteriore alla nascita o al concepimento, davanti a un ufficiale dello stato civile o in un atto pubblico o in un testamento, qualunque sia la forma di questo.Tuttavia, la volontà del singolo genitore di compiere l’atto di riconoscimento non sempre è condizione necessaria e sufficiente a produrre gli effetti del riconoscimento stesso. A riguardo è opportuno distinguere due casi: a) se il figlio ha compiuto quattordici anni al momento del riconoscimento è necessario che questi dia il suo consenso, b) se il figlio non ha ancora compiuto quattordici anni al momento del riconoscimento ma l’altro genitore l’ha già riconosciuto, è necessario il consenso di quest’ultimo.In questa ultima ipotesi occorre dire che il genitore che ha già effettuato il riconoscimento può rifiutare a dare il suo consenso al riconoscimento dell’altro genitore. Tuttavia, l’articolo 250, secondo comma, del codice civile afferma che il consenso non può essere rifiutato se risponde all’interesse del figlio. Il genitore che vuole riconoscere il figlio, qualora il consenso dell’altro genitore sia rifiutato, ricorre al giudice competente, che fissa un termine per la notifica del ricorso all’altro genitore. Se non viene proposta opposizione entro trenta giorni dalla notifica, il giudice decide con sentenza che tiene luogo del consenso mancante; se viene proposta opposizione, il giudice, assunta ogni opportuna informazione, dispone l’audizione del figlio minore che abbia compiuto i dodici anni, o anche di età inferiore, ove capace di discernimento, e assume eventuali provvedimenti provvisori e urgenti al fine di instaurare la relazione, salvo che l’opposizione non si palesemente infondata. Con la sentenza che tiene luogo del consenso mancante, il giudice assume i provvedimenti opportuni in relazione all’affidamento e al mantenimento del minore ai sensi dell’articolo 315 bis e al suo cognome ai sensi dell’articolo 262.2 - Il riconoscimento prima della nascita: chi può farlo? Quale procedura occorre seguire?La possibilità di riconoscere il figlio prima della nascita è rimessa ad entrambi i genitori o alla sola madre. In questo ultimo caso, come esaminato nel paragrafo precedente, il successivo riconoscimento del padre può avvenire esclusivamente con il consenso della madre o, se il figlio ha già compiuto 14 anni, con il consenso di quest’ultimo.Il riconoscimento antecedente al parto per coppie non sposate consiste in una dichiarazione solenne e irrevocabile resa dai futuri genitori avanti all’ufficiale dello stato civile o al notaio, in forza della quale è affermato che dall’unione naturale dei conviventi è stato concepito un figlio che madre e padre si impegnano, sin da quel momento, a riconoscere. Questo istituto, che trova la propria fonte normativa nel già citato articolo 254 del codice civile, ha quale principale scopo quello di garantire il sorgere del rapporto di filiazione, anche nell’ipotesi in cui la madre e/o il padre non possano presentarsi, per un qualsiasi motivo, a rendere la dichiarazione di riconoscimento. Sebbene sia stata introdotta la Legge 219/2012 che ha apportato modifiche in materia di riconoscimento e ha previsto l’eliminazione dall’ordinamento delle residue distinzioni tra status di figli legittimi e naturali, permangono ancora alcune differenze. In particolare, solamente per i figli nati in costanza di matrimonio, maternità e paternità si danno per presunte. Per contro, nel caso di coppie non coniuge, solamente la maternità è presunta, pertanto il padre non potrebbe procedere al riconoscimento del figlio senza la presenza della madre.Per superare questo problema, il legislatore ha previsto il riconoscimento anche prima del parto, di fondamentale importanza specialmente nell’ipotesi infausta di complicazioni durante il parto, al fine di permettere al padre di prendere le decisioni urgenti che si rendessero necessarie, ovvero in caso di prolungato impedimento della madre, per scongiurare il rischio che decorrano i dieci giorni per provvedere al riconoscimento del figlio in anagrafe. Come anticipato, è necessario rivolgersi a un notaio o a un ufficiale di stato civile di un qualsiasi Comune italiano, con documento di riconoscimento e certificato medico attestante lo stato di gravidanza.Il pubblico ufficiale che redige l’atto ne deve rilasciare copia autentica ai dichiaranti che dovranno presentarla al momento della dichiarazione di nascita.3 - Cognome e nome del nascituroAl momento della dichiarazione di riconoscimento del figlio prima della nascita non è possibile attribuirgli né nome né cognome. Essi, infatti, saranno attribuiti al momento della dichiarazione di nascita.Nel nostro ordinamento non esiste una norma che impone il cognome paterno. Difatti, si tratta di una consuetudine confermata dalla lettura di alcune disposizioni legislative. Secondo il regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile (articolo 33 del Decreto del Presidente della Repubblica n. 396/2000) il figlio legittimato ha il cognome del padre. L’articolo 262 del codice civile, invece, afferma che il figlio nato fuori del matrimonio assume il cognome del genitore che, per primo, lo ha riconosciuto. Laddove il riconoscimento sia effettuato, nello stesso instante, da entrambi i genitori, il figlio assume il cognome del padre.Con la sentenza numero 286/2016 la Corte costituzionale ha ritenuto che la preclusione, per la madre, di poter attribuire anche il proprio cognome al figlio pregiudichi il diritto all’identità personale del minore e, al contempo, costituisca un’irragionevole disparità di trattamento tra i coniugi.Occorre precisare che l’intervento della Corte costituzionale riguarda esclusivamente le ipotesi in cui vi sia una concorde volontà dei genitori di attribuire il doppio cognome. Tale principio trova applicazione anche nel caso di filiazione fuori del matrimonio quando il riconoscimento avvenga congiuntamente da parte di entrambi i genitori. Solo pochi giorni fa, la Corte costituzionale è intervenuta nuovamente sul tema, stabilendo che sono illegittime tutte le norme che attribuiscono automaticamente il cognome del padre ai figli in quanto discriminatorie e lesive dell’identità del figlio. Pertanto, la regola diventa che il figlio assume il cognome di entrambi i genitori nell’ordine dai medesimi concordato, salvo che essi decidano, di comune accordo, di attribuire soltanto il cognome di uno dei due. In mancanza di accordo sull’ordine di attribuzione del cognome di entrambi i genitori, resta salvo l’intervento del giudice in conformità con quanto dispone l’ordinamento giuridico.
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8 feb. 2025 • tempo di lettura 1 minuti
Con l’Ordinanza n. 7757 del 08.04.2020 la Sezione III Civile della Suprema Corte di Cassazione ha confermato che, in materia di risarcimento del danno da diffamazione a mezzo della stampa, la verità dei fatti narrati, legittimante il diritto di cronaca e di critica, non è scalfita da inesattezze secondarie o marginali che non siano in grado di alterare la portata informativa dell’articolo rispetto al soggetto al quale sono riferibili. Il giudizio sulla rilevanza giuridica di tali inesattezze, ossia sulla loro idoneità a diffamare, non costituisce accertamento in fatto ma giudizio di valore.Articolo pubblicato su Nuove Frontiere Diritto (ISSN 2240-726X). Clicca qui per leggere l'articolo
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7 feb. 2022 • tempo di lettura 5 minuti
Le persone fisiche acquistano, al momento della nascita, la capacità giuridica, cioè la capacità di essere titolari di quasi tutte le situazioni giuridiche soggettive connesse alla tutela dei propri interessi. Tuttavia, la legge attribuisce alcuni diritti anche al soggetto che, già concepito, non sia ancora nato. Vediamo, quindi, quale è la posizione del concepito nell’ordinamento italiano. Premessa: la nozione di “nascita”I diritti del concepito 2.1 … nel codice civile 2.2 … nella normativa complementare 2.3 … nella giurisprudenza1. Premessa: la nozione di “nascita”La legge italiana non dà la definizione di “nascita”. A questo scopo, quindi, occorre fare riferimento alla scienza medico-legale.Più in particolare, si ha la nascita con l’acquisizione della piena indipendenza dal corpo materno che si realizza con l’inizio della respirazione polmonare; le funzioni circolatoria e nervosa sono, invece, preesistenti. Di conseguenza, nel dubbio se la morte sia sopravvenuta dopo la nascita, sarà necessario accertare se i polmoni hanno respirato o meno.Come abbiamo anticipato, la nascita è condizione necessaria e, di regola, sufficiente per l’acquisto della capacità giuridica, cioè per l’acquisto della qualità di soggetto del diritto.A questo scopo, è sufficiente la circostanza della nascita, non essendo invece necessaria anche la vitalità, cioè l’idoneità fisica alla sopravvivenza. Ne consegue che se il neonato muore subito dopo la nascita, ha comunque acquisito, seppure per pochi istanti, la capacità giuridica, con quel che ne consegue ad esempio in temi di diritti successori. Da ultimo occorre ricordare che, secondo quanto previsto dal D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, uno dei genitori deve, entro dieci giorni, dichiarare l’evento della nascita all’ufficiale dello stato civile affinché venga formato l’atto di nascita. Oltre al genitore, sono legittimati a rilasciare la dichiarazione di nascita anche i procuratori speciali e coloro che abbiano assistito al parto (come il medico o l’ostetrico). Peraltro, se la nascita avviene in un ospedale o in una casa di cura, la dichiarazione può essere resa entro tre giorni direttamente presso la relativa direzione sanitaria, che la trasmetterà all’ufficiale dello stato civile.2. I diritti del concepitoCome abbiamo anticipato, l’ordinamento italiano riconosce una serie di diritti in favore del concepito.C’è, tuttavia, un limiti: ai sensi dell’art. 1 co. 2 c.c., “i diritti che la legge riconosce a favore del concepito sono subordinati all’evento della nascita”. In altri termini, potranno essere fatti valere solo se e quando avvenga la nascita; altrimenti dovranno considerarsi come mai entrati nella sua sfera giuridica del concepito.2.1 … nel codice civileIl codice civile attribuisce al concepito:a) la capacità di succedere per causa di morte, ai sensi dell’art. 462 co. 1 c.c.. Più in particolare, “Sono capaci di succedere tutti coloro che sono nati o concepiti al tempo dell'apertura della successione”. A questo proposito, salvo che sia diversamente provato, si presume concepito al tempo dell'apertura della successione chi è nato entro trecento giorni dalla morte della persona della cui successione si tratta. Ad esempio, se il padre muore dopo il concepimento, ma prima della nascita del figlio, l’eredità si devolve anche a favore di quest’ultimo, seppure non ancora nato all’epoca dell’apertura della successione.L’art. 462 co. 3 c.c., inoltre, prevede che possano ricevere per testamento anche i figli di una persona vivente al tempo della morte del testatore, anche se non ancora concepiti. b) la capacità di ricevere per donazione, ai sensi dell’art. 784 co. 1 c.c.. In modo speculare a quanto previsto in materia di successioni, la donazione può essere fatta anche a favore di chi è soltanto concepito o a favore dei figli di una determinata persona vivente al tempo della donazione, seppur non ancora concepiti. 2.2 … nella normativa complementareAl di fuori del codice civile, sono dedicate al concepito: a) Norme in materia di procreazione medicalmente assistita (legge 19 febbraio 2004, n. 40). L’art. 1, co. 1 assicura espressamente tutela ai diritti del concepito nell’ambito della procreazione medicalmente assistita, in quanto soggetto coinvolto nella procedura.b) Norme in materia di tutela sociale della maternità e di interruzione volontaria della gravidanza (legge 22 maggio 1978, n. 194). Secondo l’art. 1 co. 1, lo Stato deve tutelare la vita umana “dal suo inizio”, quindi fin dal momento del concepimento. c) Norme in materia di istituzione dei consultori familiari (legge 29 luglio 1975, 405 ). Infatti, tra gli scopi dei consultori familiari, viene espressamente nominato quello della “tutela della salute (…) del prodotto del concepimento”.2.3 … nella giurisprudenzaLa giurisprudenza ha, in più occasioni, riconosciuto in capo al concepito il diritto di ottenere il risarcimento del danno conseguente a condotte poste in essere, in suo pregiudizio, quando ancora non era nato. a) danno alla salute ed all’integrità fisica eventualmente cagionato al nascituro prima o durante il parte. Ad esempio, nella sentenza n. 11750 del 15 maggio 2018, la Corte di Cassazione ha riconosciuto ai genitori il diritto di chiedere, in nome e per conto del figlio minore, il risarcimento del danno per menomazioni derivanti dal parto, tali da causare al giovane una presuntiva diminuzione della capacità lavorativa e produttiva. b) danno sofferto a seguito dell’uccisione del padre ad opera di un terzo, quando ancora la gestazione era in corso. Nella sentenza n. 5509 del 10 marzo 2014, per esempio, la Cassazione ha riconosciuto, in capo al figlio, il risarcimento del danno patito per la morte del padre, dovuta ad un incidente stradale verificatosi per imperizia del guidatore. In questa sentenza, la Suprema Corte ha riconosciuto che la relazione con il padre naturale crea un rapporto affettivo ed educativo che la legge protegge, in quanto contribuisce ad una più equilibrata formazione della personalità del minore. Pertanto, “il figlio cui sia impedito di svilupparsi in questo rapporto, può subire un pregiudizio che costituisce un danno ingiusto, indipendentemente dalla circostanza che sia già nato al momento della morte del padre o che, essendo solo concepito, sia nato successivamente”.Editor: dott.ssa Elena Pullano
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Egregio Avvocato
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