Avv. Prof. Dott. Criminologo Forense Giovanni Moscagiuro
I termini "classic mass murderer" e "family mass murderer" fanno riferimento a due categorie distinte di omicidi di massa, ognuna delle quali ha caratteristiche specifiche:
Entrambe queste categorie rappresentano forme gravi di violenza criminale, ma sono distinte in base al contesto e alle circostanze in cui gli omicidi di massa si verificano. È importante sottolineare che queste terminologie non sono necessariamente riconosciute ufficialmente o utilizzate nei sistemi giuridici, ma sono spesso usate per descrivere specifici modelli di comportamento criminale nell'ambito della ricerca criminologica o dell'analisi di casi di omicidi di massa.
Le motivazioni che spingono "classic mass murderers" (assassini di massa classici) e "family mass murderers" (assassini di massa in famiglia) a compiere omicidi di massa possono variare ampiamente da caso a caso e spesso sono complesse. Tuttavia, alcune motivazioni comuni possono includere:
Classic Mass Murderers (Assassini di Massa Classici):
Family Mass Murderers (Assassini di Massa in Famiglia):
Va notato che ciascun caso è unico e può avere una combinazione di motivazioni complesse. Inoltre, molte volte queste persone non condividono le loro motivazioni o sono difficili da comprendere, il che rende il compito di prevenire gli omicidi di massa particolarmente complesso. La prevenzione richiede un attento monitoraggio e intervento da parte delle autorità e dei professionisti della salute mentale, oltre a una maggiore sensibilizzazione e prevenzione nella società.
Prof. Dr. Giovanni Moscagiuro
Studio delle Professioni e Scienze forensi e Criminologia dell'Intelligence ed Investigativa
Editori e Giornalisti europei in ambito investigativo
Diritto Penale , Amministrativo , Tributario , Civile Pubblica Amministrazione , Esperto in Cybercrime , Social Cyber Security , Stalking e Cyberstalking, Bullismo e Cyberbullismo, Cybercrime, Social Crime, Donne vittime di violenza, Criminologia Forense, dell'Intelligence e dell'Investigazione, Diritto Militare, Docente di Diritto Penale e Scienze Forensi, Patrocinatore Stragiudiziale, Mediatore delle liti, Giudice delle Conciliazioni iscritto all'albo del Ministero di Grazia e Giustizia, Editori e Giornalisti European news Agency
email: studiopenaleassociatovittimein@gmail.com
Condividi:
Pubblicato da:
23 set. 2021 • tempo di lettura 11 minuti
Nell’ordinamento giuridico italiano il lavoro ricopre un ruolo centrale e preminente. Ciò si evince sin dalla norma di apertura della Carta Fondamentale, e trova poi conferma in varie disposizioni legislative, tra le quali deve annoverarsi la legge 26 luglio 1975, n. 354, recante norme sull'ordinamento penitenziario e sull'esecuzione delle misure privative e limitative della libertà. L’art. 15 o.p., invero, annovera il lavoro tra i principali elementi del trattamento rieducativo del condannato e dell'internato, in quanto costituisce uno strumento fondamentale per l’attuazione degli scopi rieducativi che il trattamento penitenziario – e più in generale la pena – dovrebbe perseguire con l’obiettivo della risocializzazione del reo (art. 27 co. 3 Cost.).L’introduzione del lavoro di pubblica utilità nell’ordinamento italiano e la sua evoluzioneLe principali applicazioniLe caratteristiche del lavoro di pubblica utilitàL’obbligatorietà nel caso di sospensione del procedimento con messa alla prova (art. 168 bis c.p.)1 - L’introduzione del lavoro di pubblica utilità nell’ordinamento italiano e la sua evoluzioneLa cornice entro cui si colloca il tema del lavoro penitenziario è quella più ampia del trattamento: l’art. 15 o.p. annovera espressamente il lavoro tra gli elementi del trattamento penitenziario, stabilendo che "ai fini del trattamento rieducativo, salvo casi di impossibilità, al condannato e all’internato è assicurato il lavoro". Per gli imputati il discorso è in parte diverso alla luce del fatto che si è in una fase processuale ove vige ancora la presunzione di non colpevolezza, e il soggetto quindi potrebbe (e dovrebbe) essere sottoposto ad un trattamento differente: il lavoro può essere svolto nei modi e nei termini tali da risultare compatibili con le esigenze giudiziarie connesse alla posizione giuridica.Elemento comune alle due categorie di reclusi (condannati e internati da un lato, e imputati dall’altro lato) è la volontarietà del lavoro, non essendo concepibile, in un’ottica trattamentale e rieducativa, alcuna ipotesi di lavoro coattivo o forzato; il trattamento volto alla rieducazione per essere genuino, deve fondarsi sulla libera e consapevole adesione degli interessati.Il lavoro penitenziario si distingue in lavoro prestato all’interno della struttura penitenziaria (ovvero nel limite del terreno demaniale di immediata prossimità) e lavoro esterno al carcere. In particolare, il lavoro di pubblica utilità, consistente nella prestazione di un’attività lavorativa svolta a beneficio della comunità, rappresenta lo strumento adeguato, da un lato, a ridurre il ricorso alla pena carceraria e, dall’altro, a offrire ai trasgressori la concreta possibilità di responsabilizzarsi e risocializzarsi. Non si tratta certamente di un istituto nuovo nel nostro sistema sanzionatorio, bensì di una misura cui il legislatore ha fatto sovente ricorso, individuandone di volta in volta una natura giuridica specifica. Già il codice penale per il Regno d’Italia del 1889 (c.d. codice Zanardelli), prevedeva il L.P.U., disciplinandolo, all'art. 19, come sanzione esecutiva sostitutiva della detenzione inflitta per il mancato pagamento della sanzione pecuniaria e, all'art. 22, come modalità esecutiva della pena dell’arresto. Entrambe le declinazioni sono rimaste inattuate, sia per il numero esiguo di reati che potevano beneficiare della misura, sia a causa della mancanza di specifica regolamentazione circa le modalità esecutive.Il codice penale del 1930 (c.d. codice Rocco), invece, non recava alcun riferimento al L.P.U.Nella storia repubblicana, l’art. 49 L. 26/7/1975 n. 354, recante Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà – poi abrogato dall'art. 110 L. 24/11/1981 n. 689 – ha aperto, per primo, alla possibilità di sostituire, in sede di conversione, alla pena detentiva derivante dal mancato pagamento di una pena pecuniaria, il lavoro da prestarsi alle dipendenze di enti pubblici.Di lì a breve, la Consulta, nel dichiarare l'illegittimità costituzionale dell'art. 136 c.p., perché lesivo del principio di eguaglianza in materia penale, invitava il legislatore ad adottare opportuni strumenti normativi, quali “ad esempio l'ammissione al lavoro libero presso enti pubblici, anche per le sole giornate o periodi festivi”.Successivamente, nel disciplinare il L.P.U., il legislatore si è ispirato al modello anglosassone del community service order, con l’obiettivo di individuare uno strumento sanzionatorio alternativo o sostitutivo della pena detentiva. La finalità precipua della sanzione del lavoro di pubblica utilità risiede nella rieducazione del condannato, riconosciuta dall’art. 27, comma 3, della Costituzione. In conformità a queste premesse, il lavoro – vera e propria occasione per il recupero di un rapporto non conflittuale con la società – è stato con il tempo elevato anche al grado di sanzione penale autonoma, principale o sostitutiva.Nell'attuale ordinamento, l’istituto ― che viene utilizzato con sempre maggior frequenza, stante il suo alto potenziale rieducativo e risocializzante ― ha assunto, anche a causa dello stratificarsi delle singole previsioni, una natura versatile, in quanto disciplinato in relazione a situazioni e finalità eterogenee.2 - Le principali applicazioniCome anticipato, il lavoro di pubblica utilità è stato dapprima introdotto dalla legge n. 689 del 1981 quale sanzione applicabile in caso di conversione della pena pecuniaria non eseguita a causa delle condizioni di insolvibilità del condannato.Successivamente, il d.l. n. 122 del 1993 ha individuato il lavoro di pubblica utilità quale pena accessoria applicabile discrezionalmente dal giudice in ipotesi di costituzione di un’organizzazione, associazione, movimento o gruppo avente tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi (articolo 3 della legge n. 654 del 1975) e di istigazione, tentativo, commissione o partecipazione a fatti di genocidio (legge n. 962 del 1967).Tuttavia, è con l'art. 54 del D.Lgs. n. 274/2000 che il lavoro di pubblica utilità acquista particolare importanza, ricoprendo il ruolo di pena principale nel micro-sistema dei reati di competenza del Giudice di pace. Ai sensi dell’art. 58 – che individua i criteri di raccordo tra il quadro sanzionatorio del giudice penale di pace e l’intero sistema penale – il L.P.U. è considerato, a tutti gli effetti giuridici, come pena detentiva della specie corrispondente a quella originaria e, ai fini del ragguaglio, 1 giorno di pena detentiva equivale a 3 giorni di L.P.U.Lo spettro di applicazione della sanzione è stato successivamente allargato a numerose e diverse fattispecie penali, che hanno configurato il lavoro di pubblica utilità come una modalità di riparazione del danno collegata all’esecuzione di diverse sanzioni e misure penali, che vengono eseguite nella comunità. Attualmente trova applicazione anche:nei casi di violazione del Codice della strada, previsti all’art. 186 comma 9-bis e art. 187 comma 8-bis del d.lgs.285/1992;nei casi di violazione della legge sugli stupefacenti, ai sensi dell’art. 73 comma 5 bis del D.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309;come obbligo dell’imputato in stato di sospensione del processo e messa alla prova, ai sensi dell’art. 168-bis del codice penale, introdotto dalla legge 28 aprile 2014 n, 67:congiuntamente alla pena dell’arresto o della reclusione domiciliare, ai sensi dell’art. 1 comma 1 lett. i) della legge 28 aprile 2014 n, 67;come obbligo del condannato ammesso alla sospensione condizionale della pena, ai sensi dell’art. 165 codice penale e art. 18-bis delle Disposizioni di coordinamento e transitorie del codice penale.3 - Le caratteristiche del lavoro di pubblica utilitàL’attività richiede un’adesione volontaria del soggetto e concerne una prestazione a carattere assistenziale da svolgere a favore di categorie sensibili come persone disabili, malati, anziani, minori, ex detenuti o extracomunitari, in ambiti relativi alla specifica professionalità del condannato o nel settore della protezione civile o della tutela del patrimonio pubblico e ambientale. Il giudice può calibrare il L.P.U. in relazione anche al tipo di reato commesso disponendo, ad esempio, attività presso istituti ospedalieri o assistenziali, per chi abbia prodotto lesioni non gravi a seguito di incidente stradale (art. 590 c.p.), o attività per la prevenzione del randagismo per chi abbia, senza necessità, ucciso o danneggiato animali (art. 638 c.p.)Il lavoro di pubblica utilità non può essere inferiore a dieci giorni né superiore a sei mesi, ma in aggiunta ai limiti edittali di durata, la prestazione di pubblica utilità ha un’intensità molto angusta, atteso che il soggetto ammesso a tale lavoro può espletarlo per non più di sei ore a settimana da svolgere con modalità e tempi che non pregiudichino le sue esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute. Tuttavia, se il condannato lo richiede, il giudice può ammettere lo svolgimento del lavoro di pubblica utilità per un tempo superiore alle sei ore settimanali, fermo restando il limite delle otto ore giornaliere della prestazione, senza stabilire un limite massimo avente efficacia assoluta ed inderogabile. La possibilità di aumentare le ore giornaliere non va interpretata nel senso di offrire uno strumento al condannato per accorciare la prestazione lavorativa, ma nel senso di offrire al condannato la possibilità di dimostrare fattivamente la sua buona volontà e di accettare l’opera rieducatrice del lavoro non retribuito, il quale è predefinito dal giudice nelle modalità e nei tempi e non soggiace all’arbitrio del condannato.La fattispecie del lavoro di pubblica utilità, come forma di attività non retribuita in favore della collettività, si regge sullo strumento della convenzione, previsto dall’art. 2, d.m. 26 marzo 2001.La convenzione è stipulata principalmente con il Ministero della Giustizia o, su delega di quest'ultimo, con il Presidente del tribunale, nell'ambito e a favore delle strutture esistenti in seno alle amministrazioni, agli enti o alle organizzazioni ammesse a beneficiare delle prestazioni di pubblica utilità. Inoltre, le convenzioni possono essere stipulate anche da amministrazioni centrali dello Stato con effetto per i rispettivi uffici periferici. Nelle convenzioni sono indicate specificamente le attività in cui può consistere il lavoro di pubblica utilità e vengono individuati i soggetti incaricati di coordinare la prestazione lavorativa del condannato e di impartire a quest'ultimo le relative istruzioni. Queste ultime, congiuntamente alle modalità di svolgimento del lavoro stabilite nella convenzione, costituiscono i fondamentali parametri di riferimento del giudice, nella formulazione del giudizio sull’adempimento o meno degli obblighi connessi.Ai sensi dell’art. 6, d.m. 26 marzo 2001, terminata l'esecuzione della pena, i soggetti incaricati devono redigere una relazione che documenti l'assolvimento degli obblighi inerenti il lavoro svolto dal condannato. Oltre alla sussistenza della convenzione, prima dell’emissione della sentenza di conversione della pena, il giudice deve acquisire la dichiarazione di disponibilità dell’ente convenzionato attraverso una richiesta esplicita.Inoltre, le convenzioni devono prevedere le modalità di copertura assicurativa del condannato contro gli infortuni e le malattie professionali, nonché quelle relative alla responsabilità civile verso i terzi, anche mediante polizze collettive, ponendo i relativi oneri a carico delle amministrazioni, delle organizzazioni o degli enti interessati.Alla normativa regolamentare, salvo che altre disposizioni di rango superiore a loro volta non lo prevedano, è stato affidato il compito di precisare l’oggetto delle prestazioni da svolgere in occasione di lavori di pubblica utilità, ispirate alla tutela dei valori fondamentali alla base della solidarietà sociale su cui si fonda il nostro assetto costituzionale e caratterizzate da una notevole ampiezza.Ovviamente, è fatto divieto che l'attività di pubblica utilità si svolga in modo tale da impedire l'esercizio dei fondamentali diritti umani o tale da ledere la dignità della persona. In omaggio al principio di parità e come riflesso del diritto alla salute, i condannati che accettino di svolgere lavoro di pubblica utilità sono ammessi a fruire del trattamento terapeutico e delle misure profilattiche e di pronto soccorso alle stesse condizioni praticate per il personale alle dipendenze delle amministrazioni, degli enti e delle organizzazioni interessati.Nel caso le circostanze del caso concreto lo richiedano, per motivi di assoluta necessità, le modalità di svolgimento della misura sostitutiva possono essere modificate in corso di esecuzione dal giudice che ha emesso la sentenza.4 - L’obbligatorietà nel caso di sospensione del procedimento con messa alla prova (art. 168 bis c.p.)L’art. 168 bis c.p. prevede una nuova causa estintiva del reato (inserita nel 2014), denominata sospensione del procedimento con messa alla prova (cd. MAP): in presenza di determinati requisiti, l’imputato chiede la sospensione del processo penale in corso e si sottopone volontariamente ad un periodo di “messa alla prova” che, ove abbia esito positivo, comporta l’estinzione del reato (per approfondire sull’istituto vedi Sospensione del procedimento con messa alla prova). La novella, prevede che, nei procedimenti ordinari per reati puniti con la pena detentiva non superiore nel massimo a 4 anni, o con la pena pecuniaria, sola, congiunta o alternativa, nonché per i delitti di competenza del tribunale in composizione monocratica a citazione diretta, l'imputato possa formulare richiesta di sospensione del processo con messa alla prova (M.A.P.), ma la concessione viene necessariamente subordinata alla prestazione del L.P.U. quale istituto trattamentale.In questi casi un ruolo fondamentale è svolto dall'UEPE (ufficio di esecuzione penale esterna), il quale ha il compito specifico di definire con l’imputato la modalità di svolgimento dell’attività riparativa, tenendo conto delle attitudini lavorative e delle esigenze personali e familiari, raccordandosi con l’Ente presso cui sarà svolta la prestazione gratuita. Il lavoro di pubblica utilità diventa così parte integrante e obbligatoria del programma di trattamento per l’esecuzione della prova che è sottoposto alla valutazione del giudice nel corso dell’udienza.Nel corso dell’esecuzione, l’UEPE cura l’attuazione del programma svolgendo gli interventi secondo le modalità previste dall’art. 72 della legge 354/1975, informa il giudice sull’adempimento degli obblighi lavorativi, sulla necessità di eventuali modifiche o inosservanze che possano determinare la revoca della prova. Dovrà infine redigere una relazione finale sull’esito della prova, sulla quale il giudice dovrà basare la propria decisione di estinguere o meno il reato. Editor: dott.ssa Claudia Cunsolo
Continua a leggere
Scritto da:
Egregio Avvocato
16 ago. 2023 • tempo di lettura 2 minuti
Tutela della disabilità nel diritto nazionaleNell’ordinamento penale sono presenti numerose disposizioni che configurano come reati determinate condotte in danno delle persone disabili. In alcune di queste la disabilità è considerata elemento costitutivo del reato stesso. Alcuni esempi sono rappresentati dai seguenti articoli del codice penale:558 bis, co 2: Costrizione o induzione al matrimonio ai danni di persona in condizioni di vulnerabilità o di inferiorità psichica574: Sottrazione di persone incapaci. 579, co 3, n.2: Omicidio del consenziente, quando questo è persona inferma di mente, o che si trova in condizioni di deficienza psichica, per un’altra infermità.591: Abbandono di persone minori o incapaci.593: Omissione di soccorso su persona incapace di provvedere a sé stessa, per malattia di mente o di corpo.600: Riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù quando la vittima versa in condizione di inferiorità fisica o psichica.609 bis, co 2 n.1: Violenza sessuale quando la vittima versa in condizione di inferiorità fisica o psichica al momento del fatto.612 bis: Atti persecutori su persone disabili (secondo la definizione specificata dall’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104).L’art. 36 della l. 104/1992 prevede invece un’aggravante speciale, ad effetto speciale, che comporta l’aumento – da un terzo alla metà – delle sanzioni penali, per i reati seguenti, quando compiuti ai danni di persona portatrice di minorazione fisica, psichica o sensoriale:art. 527 cp (atti osceni).Reati non colposi elencati nel libro secondo, titolo XII (dei delitti contro la persona) e titolo XIII (dei delitti contro il patrimonio) del codice penale.Reati di cui alla L. 75/1958 (c.d. “legge Merlin”): reclutamento, induzione, favoreggiamento, sfruttamento della prostituzione, qualora commessi in danno di persona portatrice di minorazione fisica, psichica o sensoriale come definite dall’art. 3 della medesima legge.L’aggravante prevista dall’articolo 36 non si applica però quando la condizione di disabilità della vittima integri già un elemento costitutivo o una circostanza aggravante speciale del reato.Prof. Dr. Giovanni Moscagiuro studio delle Professioni e Scienze forensi e Criminologia dell'Intelligence ed Investigativa Editori e Giornalisti europei in ambito investigativo Diritto Penale , Amministrativo , Tributario , Civile Pubblica Amministrazione , Esperto in Cybercrime , Social Cyber Security , Stalking e Cyberstalking, Bullismo e Cyberbullismo, Cybercrime, Social Crime, Donne vittime di violenza, Criminologia Forense, dell'Intelligence e dell'Investigazione, Diritto Militare, Docente di Diritto Penale e Scienze Forensi, Patrocinatore Stragiudiziale, Mediatore delle liti, Giudice delle Conciliazioni iscritto all'albo del Ministero di Grazia e Giustizia, Editori e Giornalisti European news Agencyenail: studiopenaleassociatovittimein@gmail.com
Continua a leggere
16 dic. 2020 • tempo di lettura 4 minuti
L’ordinamento penale italiano si trova costantemente a dover rispondere a nuove esigenze di tutela e a dover prevedere nuove fattispecie di reato: riesce a stare al passo con i tempi e affrontare le questioni riguardanti la rivoluzione digitale in atto da anni?1. Cosa è il profilo fake? 2. Come reagisce l’ordinamento penale italiano? 3. Nel concreto come si comportano i giudici? 4. Cosa può fare il cittadino vittima di un furto di identità e di immagini?Accade ormai quotidianamente di conoscere una persona e di rimanervi in contatto grazie ai social network o, ancora più spesso, di conoscerla direttamente sul web. Al di là dello scambio di numeri telefonici, oggi, il cd. “nickname” del profilo social rientra tra le prime informazioni di cui si viene a conoscenza, così da poter reciprocamente aggiungersi e seguirsi sui vari social network.Da più di un decennio, infatti, social network come Facebook, Instagram, Twitter, LinkedIn (solo per citare i più comuni) hanno avuto una diffusione tale da rendere reale e concreta la famosa, e anche famigerata, “rivoluzione digitale”: tutti connessi, tutti collegati, a prescindere dal luogo in cui ci si trova, dalla lingua che si parla, e dall’età che si ha. Se da un lato questa profonda digitalizzazione ha sicuramente diversi lati positivi, permettendo una connessione costante tra persone distanti e una maggiore facilità di contatto, dall’altro lato ha comportato anche una maggiore facilità nella commissione di reati, primo fra tutti il furto di identità e il furto di immagini.1 - Cosa è il profilo fake?Non solo ai soggetti famosi, ma anche e soprattutto alle persone comuni, può succedere di essere vittima di furto di identità e di immagini, mediante le quali viene creato un cd. “profilo fake” (lett. profilo falso). Il profilo fake, infatti, si può manifestare in due modi: è sia quel profilo social che associa un nome (spesso di fantasia) a delle immagini, le quali appartengono, invece, ad una persona reale rimasta vittima di furto di immagini; sia quel profilo che, pur avendo il nome reale associato alle immagini reali di una persona, viene gestito – ad insaputa di quest’ultima – da soggetti terzi in modo illegittimo.2 - Come reagisce l’ordinamento penale italiano?Nonostante sia un fenomeno ormai molto diffuso, il codice penale non ha ancora previsto una disposizione ad hoc, considerando la creazione del profilo fake punibile solo se ricondotta in altre fattispecie tradizionali, tra cui l’art. 494 c.p. sulla “sostituzione di persona” e l’art. 640-ter c.p. sulla “frode informatica”. Nella sostituzione di persona (art. 494 c.p.) un soggetto si sostituisce ad un altro illegittimamente e di nascosto, con il fine di indurre i terzi in errore e ricavarne un vantaggio personale, non necessariamente economico. Per questa condotta la pena è la reclusione in carcere fino ad un anno.Nella frode informatica (art. 640-ter co. 3 c.p.), invece, il furto o l’indebito utilizzo dell’identità digitale altrui è un’aggravante del reato base di frode informatica, secondo il quale chiunque altera il funzionamento di un sistema informatico o interviene senza diritto su dati e informazioni per procurare a sé un ingiusto profitto con altrui danno, è punito con la reclusione da due a sei anni e la multa da 600 a 3.000 euro.3 - E nel concreto come si comportano i giudici?Non essendo prevista una disposizione penale ad hoc, non sono chiari i termini e i confini della fattispecie di reato, sulla quale è intervenuta, anche recentemente, la Corte di Cassazione. Con una prima sentenza nel 2014 la Corte aveva stabilito che il reato si configura anche solo mediante la creazione di un account su un social network con un nickname di fantasia, associandolo però all’immagine di un’altra persona. Non è dunque necessario utilizzare anche il nome proprio del soggetto ritratto in foto. Con una seconda sentenza all’inizio del 2020, la Cassazione ha peraltro stabilito che il furto di identità attraverso i social, qualora si tratti di un “episodio isolato”, non è punibile per particolare tenuità (e quindi per applicazione dell’art. 131-bis c.p.)Sebbene la giurisprudenza cerchi, quindi, di rimediare alle lacune legislative, un intervento riformatore e di attuazione del codice penale alle nuove esigenze di tutela appare auspicabile. 4 - Cosa può fare il cittadino vittima di un furto di identità e di immagini?La prima cosa che può fare la vittima è quella di segnalare allo stesso social network il furto di identità e di immagini mediante l’apposita sezione “segnala profilo”. In questo modo il social network viene immediatamente avvisato che è stata posta in essere una condotta illecita da uno degli utenti. Tuttavia, la sola tutela fornita dai vari social network con le mere “segnalazioni” non sembra affatto sufficiente.Il cittadino, poi, può ricorrere all’autorità giudiziaria, in particolare la Polizia Postale, ove può sporgere denuncia non appena scopre il fatto, stampando e/o “screenshottando” gli elementi ritenuti utili per provare il reato. L’inquadramento del fatto nel reato di sostituzione di persona o in quello di frode informatica è rimesso al giudice.Infine, la vittima può formulare una richiesta al Garante della Privacy, grazie alla tutela riconosciuta dal cd. GDPR: Regolamento Europeo della Privacy, entrato in vigore nel maggio 2018. Invero, se il social network non risponde alla richiesta dell’utente vittima di furto o non cancella i dati, sarà possibile presentare un ricorso al Garante per la protezione dei dati personali, il quale potrà ordinare allo stesso social network di non effettuare alcun ulteriore trattamento dei dati riferiti all'interessato e oggetto del profilo fake.Editor: dott.ssa Claudia Cunsolo
Continua a leggere
Scritto da:
Egregio Avvocato
23 nov. 2021 • tempo di lettura 1 minuti
Il permesso di costruire è il provvedimento legittimante le trasformazioni urbanistiche ed edilizie.L’art. 10 T.U. 380/2001, individua quelli che sono gli interventi da sottoporre al previo rilascio del permesso di costruire e li specifica tramite la classificazione presente nella disposizione.In particolare: Gli interventi di nuova costruzione, interventi di ristrutturazione urbanistica e gli interventi di ristrutturazione edilizia.In merito all’ultimo intervento, l’intervento deve essere diretto ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso rispetto al precedente e che comporti una modifica rispetto alla volumetria complessiva degli edifici o dei prospetti, ovvero che limitatamente agli immobili in zone A, comporti mutamenti della destinazione di uso o modifiche della sagoma di immobili sottoposti a vincoli paesaggistici.Anche se, la classificazione non è un elenco chiuso! Infatti, le regioni possono prevedere ulteriori interventi da sottoporre allo strumento del permesso di costruire, se gli stessi prevedono particolari incidenze sul territorio e sul carico urbanistico.La procedura per il rilascio del permesso di costruire è prevista dall’art. 20 T.U. 380/2001.Ulteriormente è previsto anche lo Sportello unico per l’edilizia, cui è affidato il compito di acquisire dalle varie amministrazioni competenti tutti gli assensi necessari per la realizzazione di ogni intervento edilizio.Domanda che deve essere presentata dal proprietario o da chi abbia il titolo per richiederlo. A seguito della nomina del responsabile del procedimento, entro 60 giorni quest’ultimo cura l’istruttoria e formula una proposta di provvedimento. Entro 30 giorni dalla formulazione della proposta del responsabile del procedimento, il dirigente o il responsabile dell’ufficio deve adottare il provvedimento finale che è successivamente notificato all’interessato.Decorso inutilmente il termine per l’adozione del provvedimento conclusivo, ove non sia intervenuto un motivato diniego, sulla domanda di permesso di costruire si forma il silenzio assenso, fatti salvi i casi in cui sussistono vincoli ambientali, paesaggistici o culturali.
Continua a leggere
Scritto da:
Egregio Avvocato
Non ci sono commenti