Egregio Avvocato
Pubblicato il 17 nov. 2021 · tempo di lettura 1 minuti
Tra le sentenze di proscioglimento è possibile distinguere tra le sentenze di «non doversi procedere» e le sentenze di «assoluzione» (che rappresentano quindi un sottotipo).
La differenza principale sta nel fatto che soltanto quelle di assoluzione contengono un accertamento da parte del giudice, compiuto mediante prove, e come tali sono in grado di fondare l’efficacia del giudicato nei processi civili, amministrativi e disciplinari.
Le sentenze di non doversi procedere, invece, si limitano a statuire su aspetti processuali che impediscono l’accertamento stesso – e come tali sono definite come pronunce “meramente processuali”. Ciò si verifica quando l’azione penale non doveva essere iniziata o proseguita (ad es. perché manda una condizione di procedibilità, come la querela); o quando il reato si è estinto (ad es. perché il reato è prescritto).
Un aspetto formale, comune ad entrambi i tipi di proscioglimento, è che il giudice deve adottare una delle “formule terminative” previste dalla legge, che servono a precisare e sintetizzare la causa della decisione, fungendo anche da sorte di riassunto della motivazione.
Il fatto che solo nel caso di assoluzione vi sia un vero e proprio accertamento nel merito rende tali sentenze più “vantaggiose” rispetto alle altre, anche per l’impatto che esse hanno sull’opinione pubblica.
Per conciliare il possibile interesse dell’imputato a ottenere l’assoluzione nel merito (e non una pronuncia processuale) con le esigenze di economia processuale – che invece imporrebbero di non proseguire il processo in carenza dei presupposti – l’ordinamento prevede il giudice debba pronunciare sentenza di assoluzione quando l’innocenza dell’imputato risulti «evidente dagli atti» disponibili quando si verifica anche il fatto estintivo.
È inoltre sempre possibile per l’imputato rinunciare alla prescrizione del reato ai sensi dell’art. 157 c.p.
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Egregio Avvocato
29 gen. 2022 • tempo di lettura 1 minuti
Il patteggiamento è un rito speciale previsto nel codice di procedura penale, il quale comporta che il giudice applichi con sentenza la pena che è stata indicata da una richiesta concorde del Pubblico Ministero e dell’imputato. In tal caso, si ottiene una notevole semplificazione del processo, poiché viene eliminata l’assunzione delle prove e l’utilizzazione dei verbali redatti in sede di indagine. La sentenza, inoltre, non può essere appellata ed è solo ricorribile in Cassazione, peraltro per limitati motivi specificamente individuati dalla legge. Essa, invece, non ha effetto di giudicato ai (soli) fini degli effetti civili.La legge incentiva l’imputato a tale accordo, soprattutto a fini deflattivi, prevedendo che nella determinazione della pena debba essere prevista una diminuzione fino a un terzo.Tali aspetti individuano le significative differenze col rito abbreviato.In tale secondo caso, l’imputato rinuncia al dibattimento, accettando che la pronuncia del giudice avvenga all’esito dell’udienza preliminare, acconsentendo a che vengano utilizzati gli atti segreti compiuti durante le indagini, eventualmente condizionando la richiesta ad una integrazione probatoria e indicando le prove di cui ritenga necessaria l’ammissione. Questi rinuncia cosi al pieno contraddittorio nella formazione della prova e ai diritti che gli spettano in dibattimento.Nel caso di giudizio abbreviato, l’imputato non conosce l’esito del giudizio (cioè se verrà assolto o condannato), né l’entità della pena base che il giudice sceglierà e in relazione alla quale parimenti beneficerà di una riduzione pari a un terzo. Nel caso di patteggiamento, invece, l’imputato sa in anticipo la pena che gli verrà inflitta – oltre che l’esito, appunto, di condanna. Può evidenziarsi, quindi, che in tale caso il sacrificio del diritto alla prova è compensato dal fatto che l’imputato, con l’accordo, incide direttamente sia sulla qualità, sia sulla quantità della pena, così potendo valutare in concreto se gli convenga abbandonare le garanzie del dibattimento.
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Egregio Avvocato
14 nov. 2021 • tempo di lettura 1 minuti
Il reato è un fatto giuridico umano vietato dall’ordinamento di uno Stato, al quale è collegato una sanzione di tipo penale.Esso appartiene alla più generale categoria degli “illeciti”, cioè tutti i comportamenti che violano un obbligo o un dovere posto da una norma giuridica, ai quali la legge collega una sanzione.Proprio il tipo di sanzione serve a classificare i vari tipi di illeciti e, se la sanzione è penale, si tratta necessariamente di un reato.Pertanto, il reato appartiene per definizione all’ambito penale e, quindi, aggiungere tale aggettivo al sostantivo “reato” è grammaticalmente scorretto, perché equivale a ripetere due volte lo stesso concetto – accostando al sostantivo (reato) un aggettivo qualificativo (penale) contenuto già nella sua definizione.
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Egregio Avvocato
14 nov. 2021 • tempo di lettura 1 minuti
I dati sull’efficienza e sull’efficacia del sistema giustizia in Italia non sono affatto confortanti. Eppure questi dati non possono essere presi di per sé ma devono essere messi in correlazione con altri numeri (e squilibri) che potrebbero aiutare a spiegarli. Il rapporto annuale sullo stato della giustizia dell’UE per il 2020 (EU Justice Scoreboard 2020) della Commissione Europea, che mette a confronto l’efficienza, la qualità e l’indipendenza dei sistemi giudiziari di tutti gli Stati membri dell’Unione europea, attraverso l’analisi dei dati raccolti tra il 2012 e il 2018, mette in luce alcune incongruenze del sistema.Lo squilibrio tra numero di avvocati e giudici in Italia è davvero significativo. Anzitutto, il numero degli avvocati che lavorano in Italia è molto alto in rapporto al numero di abitanti: si stima che ne lavorino circa 380 ogni 100.000 abitanti. Un numero che rapportato alla media europea diventa a dir poco spropositato, che si attesta infatti a circa 120 in rapporto al medesimo numero di abitanti.L’amministrazione della giustizia si fonda poi enormemente sulla componente umana costituita, soprattutto, dal personale di magistratura (giudicante e requirente). Sul punto si consideri che il numero di giudici in Italia è di circa 10,6 ogni 100.000 abitanti. Uno squilibrio che si nota, di nuovo in relazione alla media europea (è infatti uno fra i più bassi nel panorama europeo) ma soprattutto rispetto al numero di avvocati in Italia per 100.000 abitanti.
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Egregio Avvocato
6 apr. 2022 • tempo di lettura 1 minuti
Le circostanze del reato sono elementi accidentali del reato, la cui presenza determina un incremento della pena o una diminuzione della stessa. Il reato è già perfetto anche in assenza di quell’elemento. Esistono diversi tipi di circostanze: circostanze comuni e circostanze speciali, a seconda che possano applicarsi a tutti i reati di parte speciale, o solo ad alcune fattispecie specifiche. Diversa è la distinzione tra circostanze ad efficacia comune e circostanze ad efficacia speciale: in questo caso le prime comportano un aumento o diminuzione di pena pari a 1/3; nella seconda categoria, invece, rientrano diverse fattispecie, e cioè le circostanze ad effetto speciale, le circostanze autonome e le circostanze indipendenti.In particolare, le circostanze ad effetto speciale, contemplate e definite dallo stesso legislatore, ex art. 63 c.p. “importano un aumento o una diminuzione della pena superiore ad un terzo”. Le circostanze autonome sono quelle per le quali muta il tipo di pena e la circostanza comporta il passaggio dalla pena pecuniaria a quella detentiva, o viceversa; lo stesso quando è previsto il passaggio dalla reclusione all’ergastolo.Infine, le circostanze indipendenti sono quelle circostanze che prevedono una nuova cornice edittale indicata in termini numerici; il legislatore indica il nuovo minimo della pena e il nuovo massimo della pena. Es: art. 434 c.p. (crollo o disastro ambientale). Queste ultime sono state oggetto di un’interessante trattazione giurisprudenziale, che sarà presto approfondito in un articolo ad hoc.
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