Esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto ai sensi dell’art. 131-bis c.p.

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Pubblicato il 29 apr. 2021 · tempo di lettura 6 minuti

Esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto ai sensi dell’art. 131-bis c.p. | Egregio Avvocato
L’art. 131-bis c.p. prevede che il giudice possa escludere la punibilità di un comportamento qualora l’offesa – in ragione delle modalità della condotta e dell’esiguità del danno o del pericolo –sia particolarmente tenue. Si tratta di un fatto penalmente rilevante (quindi antigiuridico e colpevole), ma che per la sua scarsa rilevanza offensiva rispetto al bene giuridico tutelato dalla norma viene considerato non meritevole di pena. In questo contributo analizziamo i presupposti applicativi dell’istituto, oggi al centro di una specifica proposta abrogativa da parte del Parlamento. 


  1. Cos’è la particolare tenuità del fatto?
  2. Cosa prevede l’art. 131-bis c.p.?
  3. Quali sono i risvolti processuali dell’istituto?
  4. Le recenti proposte di legge: abrogazione dell’art. 131-bis c.p.?


1 - Cos’è la particolare tenuità del fatto?


L’art. 131-bis c.p. – introdotto dal legislatore con il d.lgs. 16 marzo 2015, n. 28 – integra una causa obiettiva di esclusione della punibilità, operante nei casi in cui l’offesa venga giudicata in concreto come particolarmente tenue e il comportamento delittuoso risulti non abituale.

L’istituto, in particolare, è espressione dei principi di proporzionalità della pena e sussidiarietà del diritto penale, principi quest’ultimi che trovano tutela nella carta costituzionale ai sensi degli artt. 3, 13 e 27, co. 3 cost. La ratio della disciplina, infatti, è quella di non applicare la sanzione penale – e quindi di non impegnare, in una prospettiva di deflazione processuale, i complessi meccanismi della giustizia penale – a quei fatti ritenuti concretamente marginali. A tal proposito è bene sottolineare una significativa distinzione: il fatto particolarmente tenue e quello totalmente inoffensivo operano su due piani diversi. La condotta che non viene punita in ragione dell’art. 131-bis c.p. è antigiuridica e colpevole, ma non viene sottoposta a sanzione per ragioni afferenti alla meritevolezza della pena. In altri termini, l’offesa sussiste, ma è valutata dal giudice come particolarmente tenue. Il fatto totalmente inoffensivo del bene giuridico tutelato dal reato, invece, integra una situazione ben diversa; in tal caso, non venendo in rilievo un’offesa – neppure in forma lieve – dell’interesse protetto dalla norma, non potrebbe dirsi integrato il fatto tipico previsto dall’illecito penale. 


2 - Cosa prevede l’art. 131-bis c.p.?


L’ambito operativo dell’istituto dipende, in primo luogo, dal massimo edittale di pena detentiva: la particolare tenuità, infatti, opera per quei delitti la cui pena detentiva nel massimo non sia superiore a cinque anni o per i quali sia prevista, da sola o congiunta alla reclusione, la pena pecuniaria (per quest’ultima, differentemente dalla pena detentiva, non sussistono limiti nell’ammontare). Ai fini del calcolo della pena detentiva rilevante per l’applicazione o meno della norma in questione non si tiene conto delle circostanze, ad eccezione di quelle che prevedono una pena di specie diversa dall’ordinaria o che prescrivono un aumento/diminuzione di pena superiore a un terzo. In quest’ultimo caso, ai sensi del quarto comma dell’art. 131-bis c.p. non si terrà conto del giudizio di bilanciamento di cui all’art. 69 c.p.

Il secondo presupposto riguarda poi il concreto atteggiarsi del fatto, il cui disvalore offensivo deve risultare particolarmente tenue a seguito dell’accertamento giudiziale condotto sulla base dei parametri normativi dell’art. 133 c.p. e fondato, quindi, su tre indicatori: (i) modalità della condotta; (ii) esiguità del danno o del pericolo; (iii) grado della colpevolezza. 

Per l’applicazione dell’istituto, inoltre, il comportamento del reo non deve risultare abituale. Il legislatore, in particolare, ha indicato al terzo comma alcune situazioni di abitualità delittuosa, vale a dire: quando l’autore è stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza; (ii) quando la persona ha commesso più reati della stessa indole; (iii) quando il reato riguardi condotte plurime, abituali e reiterate.

Da ultimo, è bene altresì sottolineare che il secondo comma prevede delle ipotesi preclusive di non tenuità. Si tratta di situazioni che il legislatore ha astrattamente valutato incompatibili con un giudizio di particolare tenuità. Più in dettaglio, l’offesa non può mai essere considerata tenue quando la persona: (i) ha agito per motivi abietti o futili; (ii) ha agito con crudeltà, ha adoperato sevizie o ha profittato di situazioni di minorata difesa della vittima; (iii) ha provocato come conseguenza non voluta della propria condotta la morte o le lesioni gravissime della vittima. Di recente, inoltre, il legislatore ha previsto l’impossibilità di applicare l’art. 131-bis c.p. anche in relazione ai delitti, puniti con una pena detentiva nel massimo superiore a due anni e sei mesi, commessi in occasione di manifestazioni sportive, nonché ai reati di cui agli artt. 336, 337, 341 e 343-bis c.p., se il fatto è commesso contro un ufficiale/agente di pubblica sicurezza o di polizia giudiziaria. 


3 - Quali sono i risvolti processuali dell’istituto?


Con riferimento ai profili di interesse processuale, è bene anzitutto sottolineare che la particolare tenuità del fatto può essere rilevata in ogni stato e grado del procedimento.

Già nella fase delle indagini preliminari, infatti, è previsto che il pubblico ministero, ai sensi dell’art. 411 c.p.p., possa richiedere l’archiviazione del procedimento in ragione della particolare tenuità del fatto. In tal caso, differentemente da quanto previsto dall’art. 408, co. 2 c.p.p., la richiesta di archiviazione deve essere notificata non soltanto alla persona offesa – legittimata quest’ultima a proporre opposizione nel termine di dieci giorni – ma altresì alla persona sottoposta alle indagini. Sarà poi onere del giudice per le indagini preliminari valutare se accogliere o meno la richiesta formulata dall’organo inquirente. 

Sebbene non espressamente menzionata tra le ipotesi conclusive del giudizio, la causa di non punibilità in questione può essere altresì rilevata, all’esito dell’udienza preliminare, nella sentenza di non luogo a procedere emessa dal giudice a norma dell’art. 425 c.p.p. Ugualmente, la non punibilità per particolare tenuità del fatto può essere dichiarata con sentenza prima dell’apertura del dibattimento: l’art. 469, co. 1-bis c.p.p., infatti, prevede l’ipotesi del proscioglimento predibattimentale per particolare tenuità del fatto. La non punibilità, inoltre, può essere dichiarata all’esito del giudizio di primo grado e, come sostenuto dalla giurisprudenza maggioritaria, anche in appello e in sede di legittimità.

Quanto all’efficacia extrapenale della sentenza irrevocabile, pronunciata a seguito del dibattimento per motivi di particolare tenuità del fatto, l’art. 651-bis c.p.p. prevede che il provvedimento definitivo abbia efficacia di giudicato nel giudizio civile o amministrativo di danno in merito all’accertamento della sussistenza del fatto e della sua rilevanza penale, nonché in relazione all’affermazione che l’imputato lo ha commesso. Sebbene si tratti di una sentenza di proscioglimento, infatti, il comportamento è pur sempre antigiuridico e colpevole. 

Deve infine sottolinearsi che le sentenze definitive di proscioglimento, pronunciate per particolare tenuità del fatto a seguito del dibattimento, devono essere iscritte nel casellario giudiziale. Allo stesso modo devono essere iscritti i provvedimenti di archiviazione pronunciati per la medesima ragione; tuttavia non se ne deve fare menzione nei certificati rilasciati a richiesta dell’interessato, del datore di lavoro o della pubblica amministrazione.


4 - Le recenti proposte di legge: abrogazione dell’art. 131-bis c.p.?


Nonostante l’importante funzione deflattiva svolta dall’istituto qui analizzato – funzione quest’ultima di significativa importanza specialmente nel ‘sistema giustizia’ italiano, cronicamente pervaso da intasamenti e ritardi processuali – il legislatore sta mostrando negli ultimi tempi un’ingiustificata diffidenza nei riguardi della disciplina della particolare tenuità. 

Con atto n. 2024, infatti, il 25 luglio 2019 è stata presentata alla Camera dei Deputati una proposta di legge finalizzata ad abrogare interamente l’art. 131-bis c.p. La proposta di legge – che si ritiene non possa essere salutata con favore – si fonda sul recupero di una visione ‘giustizialista’ del processo penale: nel documento parlamentare, infatti, si legge che «non punire un soggetto che abbia commesso un reato sussistente e accertato in tutti i suoi elementi andrebbe a vanificare gli effetti della giustizia penale e a scardinare il sistema penale facendo venire meno sia la funzione di intimidazione, sia quella di retribuzione e punitiva e perfino quella di rieducazione. Per di più, la disciplina de qua potrebbe essere addirittura interpretata come una vera e propria concessione a delinquere ‘tenuamente’». La proposta abrogativa è attualmente all’esame delle commissioni parlamentari competenti.


Editor: avv. Davide Attanasio

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Dichiarazioni false nell’autocertificazione: è configurabile un reato?

25 feb. 2021 tempo di lettura 7 minuti

Ormai, da quasi un anno, il nostro Paese, così come il mondo intero, si trova a dover affrontare una emergenza epidemiologica a fronte della quale tantissime libertà fondamentali hanno subìto una forte limitazione. Invero, al fine di impedire una incontrollata diffusione del virus Covid-19, il legislatore ha previsto delle misure di contenimento, tra le quali non è permesso al cittadino di muoversi liberamente nel territorio italiano. Sono previste delle deroghe solo per motivi espressamente indicati (motivi di necessità, lavoro e salute), che devono essere attestati dal privato mediante lo strumento appositamente previsto: l’autocertificazione. Ma quali sono le conseguenze a fronte di una falsità dichiarata in tale autocertificazione?Cosa è l’autocertificazione e quando deve essere utilizzataI diversi tipi di falso in atto pubblico integrabili dal privatoQuando non è integrato il reato di cui all’art. 483 c.p.1 - Cosa è l’autocertificazione e quando deve essere utilizzataNel corso dell’ultimo anno, sarà capitato a chiunque di dover ricorrere all’utilizzo dello strumento predisposto dal legislatore per giustificare un proprio spostamento: l’autocertificazione. Com’è noto, sono state previste forti misure di contenimento, in modo da limitare la diffusione del virus Covid-19, alla luce delle quali è stata particolarmente incisa la libertà di circolazione (sia all’interno della propria Regione, o addirittura della singola città, nei momenti più difficili dell’epidemia; sia all’interno del territorio nazionale, e quindi tra diverse Regioni). In ogni caso, il legislatore ha sempre previsto delle deroghe espresse, permettendo gli spostamenti che fossero motivati da comprovate esigenze lavorative o situazioni di necessità ovvero gli spostamenti per motivi di salute. È stato quindi inserito sul sito web del Ministero dell’Interno un modello di “autodichiarazione” ai sensi degli artt. 46 e 47 DPR 445/2000, scaricabile e utilizzabile da qualsiasi cittadino che avesse la necessità di spostarsi, trovandosi in una delle situazioni di deroga espressamente previste.L’autocertificazione, quindi, è quell’atto mediante il quale un soggetto, a seguito del controllo delle Forze dell’Ordine, attesta che il mancato rispetto delle disposizioni in tema di limitazione della libertà di movimento è dovuto ad una delle ragioni previste dal potere esecutivo. Nello specifico, ai sensi degli artt. 46 e 47 D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445 ciascun individuo è chiamato a dichiarare: le proprie generalità (tra cui, la propria utenza telefonica); di essere consapevole delle conseguenze penali previste in caso di dichiarazioni mendaci al Pubblico ufficiale; di non essere sottoposto alla misura della quarantena; di non essere risultato positivo al virus Covid-19; di essersi spostato dal luogo A con destinazione B; di essere a conoscenza delle misure di contenimento del contagio adottate; di essere a conoscenza delle limitazioni ulteriori adottate dal Presidente della propria Regione di appartenenza; di essere a conoscenza delle sanzioni previste dall’art. 4 D.L. 25 marzo 2020, n. 19 e dall’art. 2 D.L. 16 maggio 2020, n. 332 - I diversi tipi di falso in atto pubblico integrabili dal privatoPacificamente, le falsità inerenti il primo punto richiesto dall’autocertificazione, e quindi le proprie generalità, integrano il reato di “Falsa attestazione o dichiarazione a un pubblico ufficiale sulla identità o su qualità personali proprie o di altri” previsto dall’art. 495 c.p., che punisce con la reclusione da uno a sei anni chiunque dichiara o attesta falsamente al pubblico ufficiale l’identità, lo stato o altre qualità della propria o dell’altrui persona.Peraltro, nel concetto di “altre qualità” rientrano anche quelle informazioni che concorrono a stabilire le condizioni della persona, ad individuare il soggetto e consentire la sua identificazione; e quindi, vi rientrano dati come la residenza e il domicilio, la professione, il grado accademico, l'ufficio pubblico ricoperto, le eventuali precedenti condanne e ogni altro attributo che serva ad integrare la individualità della persona.Quindi, il privato può incorrere nel reato di cui all’art. 495 c.p. solo nel caso in cui la falsità attiene ad uno degli elementi sopracitati, e non anche se ad essere falsa è la motivazione della propria presenza in strada.  In questo diverso caso, potrebbe essere integrato il diverso reato di “Falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico” previsto all’art. 483 c.p., secondo cui chiunque attesta falsamente al pubblico ufficiale, in un atto pubblico, fatti dei quali l'atto è destinato a provare la verità, è punito con la reclusione fino a due anni.Tale delitto si configura solo nel momento in cui il privato sia obbligato a dire il vero da una norma giuridica (anche extra-penale), in quanto vengono ricollegati specifici effetti probatori all’atto-documento nel quale la dichiarazione viene inserita. 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Nel caso in cui la falsità attenga ad un fatto già compiuto, ben potrà essere integrato il reato di cui all’art. 483 c.p.Diverso è il caso in cui nell’autocertificazione venga esplicitata l’intenzione di compiere un fatto, che però non sia ancora realizzato nella sua completezza. Invero, la dichiarazione, in questi casi, ha per oggetto una mera intenzione (es. “sto andando a fare la spesa”; “sto andando a lavoro”; “sto andando in farmacia per acquistare il medicinale x”), per il quale l’accertamento, e la conformità alla realtà è possibile solo in un momento successivo. Il fatto in sé non è ancora materializzato nella realtà esteriore, e quindi si ritiene non possa essere configurata la fattispecie delittuosa ex art. 483 c.p. 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Diversamente, verrebbe violato il principio di offensività e di materialità, tutelato a livello costituzionale dall’art. 25 Cost.In conclusione, sarà necessario distinguere tra diverse condotte:le dichiarazioni mendaci rese in ordine agli elementi identificativi della persona, che assumono rilevanza ai sensi dell’art. 495 c.p.; le dichiarazioni rese in ordine ai fatti già compiuti, rilevanti con riguardo all’art. 483 c.p.;ed infine, le dichiarazioni false riguardanti le intenzioni (e, quindi, tutte quelle che concernono le “destinazioni” dei propri spostamenti) che, in quanto future ed incompiute, non possono rappresentare “fatti” su cui fondare la sanzione penale per il reato di falso da ultimo esaminato.Editor: dott.ssa Claudia Cunsolo

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Culpa in vigilando: la responsabilità civile dell’insegnante per i danni cagionati dagli alunni

8 giu. 2021 tempo di lettura 8 minuti

La scuola è titolare di un obbligo di tutelare l’integrità fisica degli allievi dal momento dell’apertura dei cancelli fino al momento dell’uscita dai medesimi e, per i più piccoli, fino alla riconsegna al genitore o a persona delegata. L’istituto e gli insegnanti hanno, pertanto, il dovere di predisporre ogni accorgimento utile e doveroso per evitare la causazione di danni agli allievi, per tutto il tempo della custodia.1 - Quadro normativo di riferimento2 - Danno cagionato da un alunno a terzi2.1 - L’art. 2048 c.c.: presunzione di culpa in vigilando dell’insegnante 2.2 - L’art. 61 l. 312/1980: disciplina specifica per gli insegnanti statali3 - Danno cagionato dall’alunno a sé stesso1 - Quadro normativo di riferimentoLa responsabilità conseguente alla vigilanza cui è tenuto un istituto scolastico è strettamente connessa all’affidamento di un minore da parte dei genitori all’istituto e si mantiene per tutto il tempo in cui l’alunno rimane nell’istituto, fino a che venga riconsegnato al potere di vigilanza dei genitori. Il codice civile detta, all’art. 2048 co. 2 c.c., una disciplina specifica in tema di responsabilità dei precettori e dei maestri d’arte, stabilendo che “i precettori e coloro che insegnano un mestiere o un’arte sono responsabili del danno cagionato dal fatto illecito dei loro allievi o apprendisti nel tempo in cui sono sotto la loro vigilanza”. Il co. 3 precisa che questi soggetti sono liberati dalla responsabilità “soltanto se provano di non aver potuto impedire il fatto”.L’art. 2048 c.c., come vedremo, introduce una particolare ipotesi di responsabilità extracontrattuale dell’insegnante per il fatto illecito commesso da un alunno che si trovi sotto la sua vigilanza a danno di altri alunni. Vedremo, invece, che per la tesi attualmente dominante, il caso dell’autolesionismo dell’allievo va ricondotto alla responsabilità contrattuale.Giova, pertanto, ricordare sinteticamente come funziona nel nostro ordinamento il sistema della responsabilità civile e quali sono le differenze tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale (o aquiliana).La responsabilità contrattuale deriva dall’inadempimento, dall’inesatto adempimento o dall’adempimento tardivo di una preesistente obbligazione (art. 1218 c.c.).La responsabilità extracontrattuale sorge in conseguenza del compimento di un fatto illecito, doloso o colposo, che cagioni ad altri un ingiusto danno (art. 2043 c.c.). Il discrimen, pertanto, va ricercato nella fonte da cui sorge la responsabilità: rispettivamente, una precedente obbligazione o un fatto illecito. Di assoluto rilievo sono le conseguenze pratiche di questa distinzione:prescrizione: la responsabilità contrattuale si prescrive in dieci anni; la responsabilità aquiliana in cinque anni;onere della prova: in caso di responsabilità contrattuale, chi agisce in giudizio deve dimostrare solo l’esistenza dell’obbligazione (ad es. del contratto) e l’oggettivo inadempimento, mentre il debitore deve provare che l’inadempimento non è a lui imputabile; in caso di responsabilità extracontrattuale, invece, il danneggiato deve dimostrare la condotta del danneggiante, il danno subito, il rapporto di causalità tra la condotta e il danno, nonché la colpa; vedremo, però, che ci sono dei casi – come quello relativo alla responsabilità aquiliana dell’insegnante – in cui si verifica un’inversione dell’onere della prova, che fa gravare sull’insegnante la prova liberatoria di non aver potuto impedire il fatto. risarcimento del danno: in caso di responsabilità contrattuale, sono risarcibili solo i danni prevedibili nel tempo in cui è sorta l’obbligazione; in caso di responsabilità extracontrattuale, sono risarcibili tutti i danni che siano conseguenza immediata e diretta della condotta dell’agente.2 - Danno cagionato da un alunno a terziCome abbiamo anticipato, se l’alunno cagiona un danno a terzi (ad esempio ad un altro alunno o ad altro personale scolastico) mentre è sotto la vigilanza dell’insegnante, quest’ultimo ne risponde. Fra le disposizioni rilevanti in tema di vigilanza: gli insegnanti sono tenuti a trovarsi in classe 5 minuti prima dell’inizio delle lezioni e ad assistere all’uscita degli alunni (art. 42 co. 5 del CCNL del 14 agosto 1995);il Consiglio di Istituto delibera sull’adozione del regolamento interno, che deve stabilire le modalità per la vigilanza degli alunni durante l’ingresso e la permanenza nella scuola, nonché durante l’uscita dalla stessa (art. 10 lett. a) Testo Unico delle disposizioni vigenti in materia di istruzione).Si tratta di una responsabilità extracontrattuale, in quanto deriva da un fatto illecito, ma è un modello che si atteggia in modo particolare rispetto a quello generale di cui all’art. 2043 c.c. e che deve tenere conto, con riferimento ai soli insegnanti statali, della disciplina di cui all’art. 61 l. 312/1980.Della mancata vigilanza sugli alunni non risponde, invece, il dirigente scolastico: fra i suoi doveri non vi sono quelli di vigilanza sugli alunni ma quelli organizzativi, di amministrazione e di controllo sull’attività degli operatori scolastici. Di conseguenza, egli ha una responsabilità extracontrattuale ai sensi dell’art. 2043 c.c. nei casi in cui il danno sia conseguenza di carenze organizzative a lui imputabili.2.1 - L’art. 2048 c.c.: presunzione di culpa in vigilando dell’insegnante L’art. 2048 c.c. introduce un’ipotesi di responsabilità per fatto altrui (cioè dell’insegnante, per il fatto dell’alunno), che si basa sul modello della culpa in vigilando: la legge presume la colpa (cioè la mancanza di diligenza), sulla base del solo dovere di vigilanza di cui sono investiti gli insegnanti. In altre parole, c’è la presunzione di un negligente adempimento dell’obbligo di sorveglianza sugli allievi (appunto presunzione di culpa in vigilando): l’insegnante può superare questa presunzione solo se dimostra, nel caso concreto, il caso fortuito. L’insegnante, pertanto, sarà tenuto al risarcimento del danno nei confronti dei terzi danneggiati dal fatto illecito dell’alunno, a meno che dimostri che nella serie causale dell’evento si è inserito un fatto esterno improvviso, imprevedibile e repentino in relazione al quale l’insegnante non poteva esercitare alcun intervento correttivo. La prova è ulteriormente aggravata dalla giurisprudenza, che richiede che l’insegnante dimostri anche di aver assunto, in via preventiva, le misure atte ad evitare il danno che in concreto si è verificato. Ecco l’inversione dell’onere della prova cui si è fatto prima cenno: mentre, normalmente, è il danneggiato a dover dimostrare la colpa e gli altri elementi costitutivi dell’illecito civile extracontrattuale, nel caso della responsabilità dell’insegnante il danneggiato deve provare solo che il fatto si è verificato nel tempo in cui il minore è rimasto affidato alla scuola.Va precisato, tuttavia, che il dovere di vigilanza imposto ai docenti dall’art. 2048 c.c. ha una ampiezza che dipende dall’età e dal normale grado di maturazione degli alunni: con l’avvicinamento di questi ultimi alla maggiore età, ad esempio, l’adempimento del dovere di vigilanza non richiede la continua presenza degli insegnanti, purché comunque non manchino le necessarie misure organizzative idonee ad evitare il danno. Ne consegue che l’alunno minorenne, qualora sia ritenuto capace di intendere e di volere al momento del fatto, potrebbe essere chiamato a rispondere (rappresentato dai genitori) in solido con l’insegnante o anche in modo esclusivo.2.2 - L’art. 61 l. 312/1980: disciplina specifica per gli insegnanti stataliIn base all’art. 28 della Costituzione, quando si tratta di dipendenti pubblici è sempre responsabile anche la pubblica amministrazione di appartenenza (cioè il Ministero dell’Istruzione), per il principio di immedesimazione organica.Su questo fronte, l’art. 61 l. 312/1980 ha profondamente innovato e mitigato la disciplina della responsabilità del personale scolastico pubblico per i danni causati a terzi nell’esercizio delle funzioni di vigilanza sugli alunni. In primo luogo, secondo questa norma il personale scolastico risponde dei danni che l’alunno abbia cagionato alla stessa amministrazione (ad esempio, danneggiando i banchi) ma solo nei casi di dolo o colpa grave nell’esercizio della vigilanza sugli alunni.Inoltre, gli insegnanti statali non rispondono personalmente verso i terzi danneggiati, rispetto ai quali risponde direttamente l’amministrazione. Ciò comporta, a livello processuale, una esclusione dell’insegnante, che viene sostituito direttamente dall’amministrazione: in modo più tecnico, l’art. 61 esclude la legittimazione passiva dell’insegnante. Tuttavia l’amministrazione, qualora in giudizio fosse accertata la responsabilità dell’insegnante, potrà rivalersi nei suoi confronti ma solo in caso di dolo o colpa grave. Secondo l’orientamento prevalente, l’esclusione della legittimazione passiva dell’insegnante è esclusa non solo nel caso di azione per danni arrecati da un alunno ad altro alunno ma anche in quello di danni arrecati dall’allievo a se stesso.3 - Danno cagionato dall’alunno a se stessoCome si è anticipato, l’orientamento attualmente maggioritario ritiene che il danno c.d. auto-provocato, cioè direttamente provocato dall’alunno a sé stesso fondi, non già una responsabilità aquiliana, bensì una responsabilità contrattuale.In particolare:l’istituto scolastico, con l’ammissione dell’allievo a scuola che consegue all’accoglimento della domanda di iscrizione, determina l’instaurarsi di un vincolo contrattuale: da questo sorge a carico dell’istituto un obbligo di vigilare sulla sicurezza e l’incolumità dell’allievo nel tempo in cui questi fruisce della prestazione scolastica. Ne deriva quindi anche l’obbligo di evitare che l’allievo procuri danno a sé stesso;l’insegnante e l’alunno sono legati da un rapporto giuridico, nell’ambito del quale l’insegnante assume, nel quadro del complessivo obbligo di istruire ed educare, anche uno specifico obbligo di protezione e di vigilanza, al fine di evitare che l’allievo si procuri da solo un danno alla persona. Questo rapporto giuridico si fonda non su un contratto quanto sul c.d. “contatto sociale”, che discende dalla descritta relazione qualificata che sussiste fra l’allievo e l’insegnante.Di conseguenza, viene in rilievo il regime probatorio previsto in tema di responsabilità contrattuale e non opera la presunzione di culpa in vigilando di cui all’art. 2048 c.c.: chi agisce, deve provare che il danno si è verificato nel corso dello svolgimento del rapporto, quindi a scuola; l’insegnante o il dirigente scolastico devono dimostrare che l’evento dannoso è stato determinato da una causa non imputabile né all’insegnante né alla scuola, comprovando di aver predisposto ogni accorgimento idoneo ad impedire la realizzazione dell’evento.Editor: dott.ssa Elena Pullano

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La prescrizione penale del reato: cos’è e come funziona?

11 feb. 2021 tempo di lettura 6 minuti

La disciplina della prescrizione è da tempo al centro del dibattito pubblico e politico, oltre che giuridico. Nell’arco di pochi anni è stata infatti oggetto di due importanti riforme (rispettivamente riforma Orlando nel 2017 e riforma Bonafede nel 2019), che ne hanno radicalmente cambiato i connotati. Ciò non esclude, peraltro, che nel prossimo periodo il decisore politico possa intervenire nuovamente sulla materia. Cerchiamo dunque di comprendere più da vicino le finalità dell’istituto e di analizzare i tratti principali della disciplina prevista dal codice penale.1. Cos’è la prescrizione del reato?2. Come funziona la prescrizione?3. Vi sono dei casi di interruzione o sospensione del termine prescrizionale?4. L’imputato può rinunciare alla prescrizione?1 - Cos’è la prescrizione del reato?La prescrizione integra una causa di estinzione del reato: ciò vuol dire che, decorso un determinato periodo di tempo prestabilito ex legge dalla consumazione del fatto criminoso, senza che sia intervenuta una sentenza di condanna definitiva, il giudice dovrà prosciogliere l’imputato per l’intervenuta prescrizione del delitto. La persona, dunque, non verrà sanzionata penalmente. La prescrizione, in particolare, declina in termini temporali l’interesse dello Stato a irrogare una sanzione in relazione a un determinato illecito penale: spirato il termine prescrizionale viene meno la pretesa punitiva dello Stato, in quanto si ritiene che sia trascorso troppo tempo per considerare una persona ancora meritevole di pena. La Corte costituzionale, a tal riguardo, ha parlato di un vero e proprio “diritto all’oblio in capo all’autore [del reato]” (Corte cost., 26 gennaio 2017, n. 24).Chiarita in questi termini la finalità di fondo dell’istituto, deve fugarsi ogni dubbio in merito a un fraintendimento che spesso caratterizza il dibattito pubblico e, alle volte, anche quello politico: la prescrizione è cosa diversa dalla (ragionevole) durata dei processi, sebbene chiaramente le tematiche presentino dei forti punti di connessione. La prima riguarda l’interesse dello Stato a punire e, specularmente, quello dell’imputato a non ricevere una pena qualora sia trascorso troppo tempo dalla commissione del fatto; la seconda, invece, si sostanzia nel diritto della persona – e del relativo dovere dello Stato – a che un processo venga celebrato in tempi rapidi. Intervenire sulla disciplina della prescrizione, quindi, non significa affatto risolvere la problematica della irragionevole durata dei processi. Affinché ciò possa avvenire sarebbe necessario un articolato catalogo di interventi legislativi, a partire da una riforma che provveda a riorganizzare l’assetto degli uffici giudiziari.2 - Come funziona la prescrizione?La durata del termine prescrizionale, ai sensi dell’art. 157 c.p., è pari al massimo della pena edittale stabilita dalla legge e, in ogni caso, non inferiore a sei anni per i delitti e quattro per le contravvenzioni. La norma prevede inoltre dei termini speciali per talune fattispecie di reato considerate più gravi: per il delitto di maltrattamenti contro familiari e conviventi, ad esempio, si applica un termine prescrizionale raddoppiato (se vuoi saperne di più sul reato di maltrattamenti di cui all’art. 572 c.p., clicca qui)I reati puniti con la pena dell’ergastolo – così l’omicidio aggravato di cui all’art. 576 c.p. – sono invece imprescrittibili. La ragione di questa scelta politico-criminale si fonda sulla gravità del reato: a voler riprendere il suddetto esempio, il legislatore ha ritenuto che l’interesse a punire dello Stato non debba mai svanire nel caso di omicidio aggravato, venendo in rilievo il bene giuridico della vita. Quanto al momento di decorrenza della prescrizione, si noti che per il reato consumato il termine decorre dal momento della sua consumazione e per quello tentato, invece, da quando è cessata l’attività delittuosa. Per i reati permanenti e continuati, infine, da quando è cessata la permanenza o la continuazione.3 - Vi sono dei casi di interruzione o sospensione del termine prescrizionale?Si, il codice penale disciplina i casi di sospensione, interruzione e dei relativi effetti agli artt. 159, 160 e 161 c.p.La sospensione della prescrizione – che differentemente dall’interruzione produce i propri effetti nei confronti delle sole persone a processo e non di tutti coloro i quali hanno commesso il reato – determina l’arresto del decorso della prescrizione, che riprende il suo corso dal giorno in cui cessa la causa sospensiva.  L’ipotesi sospensiva di maggior interesse – introdotta con la legge 9 gennaio 2019 n. 3 (c.d. legge ‘spazza-corrotti’, anche nota come riforma Bonafede) – riguarda la sospensione della prescrizione dalla pronuncia della sentenza di primo grado sino a che questa non sia divenuta irrevocabile. In altre parole, il termine non decorre più dall’emissione della sentenza di primo grado – indipendentemente che la decisione sia di assoluzione o di condanna – sino alla conclusione del processo. L’innovazione normativa è entrata in vigore il 1° gennaio 2020 e potrà applicarsi esclusivamente con riferimento ai fatti di reato commessi successivamente a questa data. In ragione della rilevanza della riforma, è necessario effettuare un cenno alla normativa previgente risalente alla legge 23 giugno 2017 n. 103 (c.d. riforma Orlando). L’art. 159 c.p. prevedeva la sospensione della prescrizione – per un termine comunque non superiore a un anno e sei mesi – dal giorno indicato per il deposito delle motivazioni della sentenza di primo grado sino alla pronuncia della decisione del grado di appello (il medesimo meccanismo regolamentava altresì il rapporto tra secondo grado e giudizio di Cassazione). Peraltro, a differenza della norma attualmente vigente, ai fini della sospensione veniva in rilievo esclusivamente la sentenza di condanna. In caso di assoluzione, dunque, il termine prescrizionale continuava a decorrere. Inoltre, qualora all’esito di un grado di giudizio successivo al primo fosse intervenuta una decisione di assoluzione, il periodo di sospensione veniva ‘recuperato’ ai fini del conteggio totale. Quanto all’interruzione della prescrizione, quest’ultima, per via del compimento di alcuni atti giudiziari, determina il prolungamento del termine prescrizionale, che comincia nuovamente a decorrere dal giorno stesso in cui si è verificata la causa interruttiva. In ogni caso, ai sensi dell’art. 161, co. 2 c.p. l’aumento non può essere superiore a un quarto del tempo necessario a prescrivere, salvi i casi di alcuni reati specificamente indicati dalla norma per cui è previsto un aumento maggiore. In concreto: se il reato si prescrive in sei anni e si verifica una causa interruttiva, il nuovo termine prescrizionale sarà di sette anni e sei mesi. Le cause di interruzione della prescrizione sono tassativamente indicate dall’art. 160 c.p.: fra queste, ad esempio, la richiesta di rinvio a giudizio o il decreto che dispone il giudizio e non invece, non essendo espressamente previsto, l’avviso di conclusione delle indagini preliminari. 4 - L’imputato può rinunciare alla prescrizione?Si, ai sensi dell’art. 157, co. 7 c.p., l’imputato può rinunciare alla prescrizione: potrebbe avvenire, ad esempio, nei casi in cui la persona – convinta della propria innocenza – miri a ottenere una pronuncia di piena assoluzione. In tali casi, dunque, il giudice non dichiarerà l’estinzione del reato – sebbene il termine prescrizionale sia già maturato – ma dovrà esprimersi nel merito della vicenda. Il codice penale prevede che la dichiarazione di rinuncia avvenga in modo espresso. Ciò vuol dire che la volontà dell’imputato deve essere estrinsecata in maniera esplicita, non potendosi desumere implicitamente. Si consideri, inoltre, che la rinuncia alla prescrizione è un diritto personalissimo e, pertanto, la relativa dichiarazione deve essere effettuata personalmente dall’imputato o dal difensore munito di apposita procura speciale. Secondo l’orientamento maggioritario della Corte di Cassazione, la dichiarazione di rinuncia può essere altresì revocata, a condizione però che non sia già intervenuta la decisione del giudice (a titolo esemplificativo Cass. pen., sez. VI, 11 luglio 2012, n. 30104). Deve tuttavia segnalarsi una pronuncia di segno contrario, ad avviso della quale la rinuncia alla prescrizione è irrevocabile (Cass. pen., sez. V, 24 aprile 2008, n. 33344). Editor: avv. Davide Attanasio

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Egregio Avvocato

Detenzione di sostanze stupefacenti: non è possibile confiscare le somme di denaro a titolo di profitto del reato.

5 set. 2022 tempo di lettura 2 minuti

Abstract: Nel caso in cui all’imputato venga contestato il reato di detenzione di sostanze stupefacenti, ex art. 73 co. V del D.p.r n. 309 del 1990, è esclusa la possibilità di confiscare le somme di denaro, in quanto non costituiscono il profitto del reato.1 – Il principio di diritto.Con la sentenza n. 30861 del 13 luglio 2022, la quarta sezione della Suprema corte di cassazione ha espresso il principio di diritto secondo cui “ove venga ravvisata l’ipotesi di cui al quinto comma dell’art. 73co. V del D.p.r. n. 309/90, è possibile procedere alla confisca del denaro trovato in possesso dell’imputato solo in presenza dei presupposti di cui all’art. 240 co. 1 del codice penale”. 2 – Il fatto.Il difensore del sig. M. B. proponeva ricorso per Cassazione avverso la sentenza pronunciata ai sensi dell’art. 444 c.p.p., con la quale, oltre ad irrogare la pena principale, ordinava altresì la confisca della somma di € 5.590,00 precedentemente sottoposta a sequestro.La somma di denaro oggetto di sequestro veniva rinvenuta in parte all’interno dell’abitazione, ed in parte nel vano sottosella del motorino di sua proprietà.La sentenza gravata considerava detta somma di denaro quale provento-profitto della cessione onerosa a terzi dello stupefacente, su una base prettamente indiziaria (mancata giustificazione della provenienza, dal possesso di un’agenda con annotati nomi di persone e cifre, assenza di attività lavorativa lecita).3 – La sentenza.L’approdo giurisprudenziale in commento, riprendendo quelli che sono gli orientamenti ormai consolidati sul tema (C. Pen. Sez. IV, n. 40912/16, Rv. 267900; C. Pen. Sez. VI, n. 55852/17, Rv. 272204), parte dal presupposto secondo cui “in caso di contestazione del reato ex art. 73 co. V del D.p.r. n. 309/90, è possibile procedere a confisca del denaro solo in presenza dei presupposti di cui all’art. 240 c.p. e non ai sensi degli artt. 85-bis (D.p.r. n. 309/90) o dell’art. 240-bis del codice penale”.Come noto, l’art. 240 c.p. opera esclusivamente con riferimento al provento del reato per il quale l’imputato è stato condannato e non può, a contrario, avere ad oggetto i proventi di altre eventuali condotte antigiuridiche, estranee alla dichiarazione di responsabilità.Orbene, secondo il Supremo consesso per poter confiscare le somme di denaro trovate in possesso dell'imputato è necessario, quindi, accertare l’esistenza del nesso di pertinenzialità fra la somma di denaro rinvenuta e il reato ascritto all’imputato; ne consegue che, venendo a mancare i presupposti applicativi dell’art. 240 c.p., non sono confiscabili le somme che, in ipotesi, costituiscono il ricavato di precedenti diverse cessioni di droga e sono destinate ad ulteriori acquisti della medesima sostanza, non potendo le stesse qualificarsi né come "strumento", né quale "prodotto", "profitto" o "prezzo" del reato.

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