Avv. Michele Danza
La colpa è il criterio eccezionale di imputazione, sotto il profilo soggettivo, dell’evento dannoso, o pericoloso da cui discende l’esistenza del reato, nei confronti del soggetto agente, e si concreta nell’inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline.
È nota e ben tracciata nel codice Rocco del 1930 la distinzione tra colpa e dolo, quest’ultimo considerato il criterio ordinario di imputazione di un fatto di reato. Ai sensi dell’art. 43 c.p., infatti, il dolo consiste nella volontà dell’agente di porre in essere una condotta antigiuridica diretta al perseguimento dello scopo vietato dall’ordinamento. Esistono diverse declinazioni del concetto di dolo, tra le quali si ricordano quella di dolo intenzionale, o di primo grado, e diretto o di secondo grado, il cui discrimen dipende dal ruolo più o meno dominante della volontà nella realizzazione dell’evento dannoso da parte del soggetto attivo. Infatti, se da una parte nel dolo intenzionale, l’agente si rappresenta tutti gli elementi della fattispecie incriminatrice, essendo certo che la sua condotta li integrerà tutti, nel dolo c.d. diretto, al contrario, il soggetto attivo, pur rappresentandosi la possibilità che la propria condotta potrà integrare gli elementi della fattispecie di reato, la condotta antigiuridica posta in essere non è che uno strumento funzionale alla realizzazione di uno scopo diverso. E’ l’esempio che può farsi del sequestratore dell’uomo politico. Il reo, in tal caso, si rappresenta la possibilità di dover uccidere gli uomini della scorta, il che si assume essere funzionale al perseguimento dello scopo illecito.
Sicuramente, la nozione di dolo che ha suscitato maggiori perplessità, in dottrina come in giurisprudenza, è quella inerente al c.d. dolo eventuale. Si tratta di una figura non codificata, e per la quale risulta assai arduo tracciare una linea di demarcazione chiara e netta rispetto alla c.d. colpa cosciente, di cui si trova menzione nel codice penale vigente all’art. 61, n. 3 c.p., e cioè in seno alle cc.dd. circostanze aggravanti comuni.
Generalmente, si suole definire il dolo eventuale come quella tipologia di dolo che si manifesta ove l’agente, pur non volendo commettere un reato, prevede la possibilità della sua concreta realizzazione a seguito della propria condotta antigiuridica, accettandone il rischio e, così, portandola a compimento.
II FIANDACA-MUSCO offre un esempio abbastanza chiarificatore al riguardo. Pensiamo al caso di chi, infastidito dagli schiamazzi provenienti dalla piazza sottostante, lancia dal balcone del proprio appartamento una bottiglia di vetro che, cadendo in terra, si frantuma in mille pezzi, provocando così schegge che vanno accidentalmente a colpire taluno dei passanti, provocando loro lesioni personali.
E’ evidente che non sia possibile imputare il reato di lesioni, ex art. 582 c.p., lievi o lievissime, gravi o gravissime a seconda del caso, a titolo di dolo intenzionale, poiché il proprietario dell’appartamento che ha lanciato la bottiglia di vetro dal balcone, di fatto, non voleva realizzare l’evento dannoso, ma ha previsto nella sua mente, quale conseguenza potenziale della propria condotta, che l’evento dannoso, consistente nel danno fisico patito dalle vittime del gesto, si potesse realizzare, accettandone il rischio e, ciononostante, ha agito in senso antigiuridico. Nel caso, invece, della colpa cosciente di cui all’art. 61, n. 3 c.p., è possibile tracciare il seguente perimetro: essa si realizza ogniqualvolta l’agente, pur rappresentandosi in astratto la possibilità che si verifichi l’evento dannoso, quale conseguenza diretta della propria condotta, ne escluda tuttavia il suo concretizzarsi nella realtà materiale, o fenomenica che dir si voglia, confidando nelle rispettive capacità od abilità di evitarlo o di impedirne il verificarsi.
Se da una parte è difficile riuscire a tracciare una distinzione precisa tra le figure psicologiche del reato appena enunciate, dall’altro, le difficoltà si fanno ancora più pregnanti rispetto a due declinazioni del concetto di colpa che ancora faticano a trovare un posto chiaro nel complesso panorama del dibattito giurisprudenziale e dottrinale sviluppatosi negli anni.
Infatti, ai fini della distinzione tra colpa con previsione e colpa comune, la giurisprudenza ha fatto sovente riferimento alla teoria della probabilità della verificazione dell’evento ovvero dell’astratta previsione. Secondo la tesi in commento, se la probabilità di verificazione dell’evento è rilevante saremmo di fronte alla colpa con previsione, salvo il dolo eventuale quando l’evento è altamente probabile; altre volte, invece, sulla base dell’astratta possibilità di previsione dell’evento, la colpa cosciente si concretizzerebbe nella rappresentazione solo generica ed astratta del verificarsi dell’evento dannoso, mentre ove la rappresentazione sia concreta e specifica si sarebbe di fronte ad un’ipotesi di dolo eventuale.
In dottrina, la tesi che fa riferimento al grado di probabilità della verificazione dell’evento, secondo cui dunque sarebbe configurabile colpa cosciente quando l’agente si rappresenta l’evento come possibile (mentre se lo rappresenta come probabile avremmo dolo eventuale) è stata vivacemente criticata soprattutto per la sua indeterminatezza. Si è infatti evidenziato che tale criterio rischia di confondere il giudizio di prevedibilità con quello relativo all’accertamento della previsione dell’evento. Che il grado di probabilità anche elevatissimo non implichi automaticamente che l’agente l’abbia previsto non sembra contestabile. Al più, l’elevata probabilità potrà costituire sintomo dell’effettiva previsione, ma giammai potrà con esso confondersi: se il conducente di un veicolo è in buona salute, o è ubriaco, è di certo maggiormente prevedibile e probabile che provochi un incidente ma ciò non significa che l’agente abbia previsto l’effettivo verificarsi.
Secondo invece la tesi della previsione in astratto, piuttosto che in concreto, dell’evento, si avrà colpa cosciente ove il secondo componente del nesso causale, che integra la concezione tripartita del reato, sia stato previsto dall’agente solo in astratto, mentre ove sia stato previsto in concreto avremo dolo eventuale.
Invero, anche la tesi suesposta non convince per la semplice ragione per cui, se ammettessimo un criterio discretivo simile, dovremmo allora imputare per colpa aggravata dalla previsione dell’evento qualsiasi delitto colposo che dovesse verificarsi in conseguenza dell’ordinario esercizio di un’attività pericolosa, come la circolazione dei veicoli, ammessa dall’ordinamento per esigenze di utilità sociale.
Una terza tesi, in verità, sembra essersi fatta spazio tra quelle appena enunciate e riguarda, in particolare, lo scostamento della condotta posta in essere dall’agente rispetto allo standard cautelare astrattamente adottato dall’ordinamento. Questa teoria, sebbene persuasiva per quel che concerne la distinzione tra dolo eventuale e colpa cosciente, non aiuta affatto a distinguere la figura della colpa comune rispetto a quella della colpa con previsione, per le quali, infatti, un lieve scostamento dallo standard di cautela richiesto è sempre presente e, in ogni caso, non influenza il livello di effettiva previsione dell’evento.
Alla luce delle suesposte argomentazioni, allo scopo di rispondere al quesito in esame, sembra essere preferibile la tesi che fa perno sulla specifica concretezza del pericolo che caratterizza la previsione dell’evento, che infatti, caratterizzerà la figura tanto del dolo eventuale quanto della colpa cosciente; al contrario, se il pericolo è soltanto generico ed astratto, può parlarsi soltanto di prevedibilità e dunque di colpa comune o non aggravata. Ciò implica che il Giudice deve accertare tutti gli elementi fattuali e sintomatici che consentano di affermare che l’agente ha effettivamente previsto l’evento.
Per concludere con un esempio che aiuta la comprensione dell’argomento, possiamo immaginare il sorpasso in situazione di pericolo che integra un’ipotesi di colpa cosciente o con previsione ogniqualvolta l’automobilista esegua il predetto sorpasso, confidando nella rapidità della sua manovra, pur essendosi accorto che la corsia che deve impegnare per il sorpasso è già occupata da un altro veicolo che marcia in direzione opposta; ovvero, si pensi al caso in cui il sorpasso avvenga in curva, se l’altra corsia appaia impegnata da una serie di veicoli che la stanno percorrendo, ovvero ancora quando l’agente, conscio della brevità del tratto libero nel quale può eseguire il sorpasso, lo compia ugualmente trovandosi nella necessità di rientrare anzitempo e per questo vada ad urtare il veicolo che aveva tentato di sorpassare.
Bisogna dunque ribadire che la colpa cosciente è configurabile ove la volontà dell'agente non è diretta alla realizzazione dell'evento, ma egli abbia previsto in concreto che la sua condotta poteva cagionare l'evento ed abbia comunque agito con il convincimento di poterlo evitare, sicché ai fini della valutazione della responsabilità il Giudice deve indicare analiticamente gli elementi sintomatici da cui sia possibile desumere non la prevedibilità in astratto dell'evento, bensì la sua previsione in concreto da parte dell'imputato
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22 feb. 2021 • tempo di lettura 6 minuti
Dal 2004, la legge prevede espressamente i reati di uccisione e maltrattamento di animali agli artt. 544 bis e 544 ter c.p.. Tali previsioni inizialmente erano ispirate ad una logica “antropocentrica”, volta cioè a tutelare il sentimento di pietà della persona rispetto agli animali, oggetto di una protezione soltanto indiretta. Negli ultimi tempi, tuttavia, la giurisprudenza sembra aver riconosciuto un maggior rilievo alla sensibilità e serenità psicofisica degli animali, garantendo loro una tutela più ampia ed indipendente rispetto a quella riconosciuta agli uomini. Cosa prevedono i reati di uccisione e maltrattamenti di animali?Quali sono le sanzioni previste dal codice penale?Quali sono le pene previste per i reati?Cosa fare in caso di uccisione o maltrattamenti di animali?1 - Cosa prevedono i reati di uccisione e maltrattamenti di animali?Gli artt. 544 bis e 544 ter c.p. prevedono, rispettivamente, i delitti di uccisione e maltrattamento di animali.Entrambe le disposizioni individuano quale elemento fondamentale della fattispecie penale la circostanza che l’autore agisca:per crudeltà, cioè con condotte o per motivi che urtano la sensibilità umana, valevoli a infliggere gravi sofferenze senza giustificato motivo; in tal modo è esclusa la punibilità di chi, ad esempio, cagioni la morte dell’animale inavvertitamente durante la guida;o in assenza di necessità, che vi sarebbe nel caso in cui la condotta sia funzionale a evitare un pericolo immanente o un danno alla propria persona o ad altri ma anche ad evitare il protrarsi di inutili sofferenze dell’animale stesso; è esclusa, ad esempio, la punibilità del veterinario che somministri all’animale un farmaco per sopprimerlo.Inoltre, è esclusa la configurabilità dei reati ai sensi dell’art. 19 ter disp. coord. c.p., nei casi di condotte disciplinate (e autorizzate) dalle leggi speciali come quelle relative alla caccia, alla pesca, o alla macellazione degli animali – ricondotte ad una sorta di “necessità sociale”.Il reato di uccisione fa riferimento all’ipotesi in cui chiunque cagioni la morte di un animale, per crudeltà o senza necessità.Nel caso del delitto di maltrattamenti, rileva ogni condotta idonea a cagionare una «lesione» all’animale, cioè una ferita o una malattia, ma anche il procurare sofferenze di tipo diverso, anche non necessariamente fisiche. Ciò perché l’animale viene considerato e tutelato quale essere sensibile, capace di provare dolore.Parimenti, rileva la situazione in cui un soggetto imponga all’animale il compimento di attività sproporzionate o non compatibili con le sue caratteristiche naturali.A questi fini possono rilevare sia le aggressioni fisiche (come calci, percosse, bastonate), ma anche le sevizie (come ad esempio privare l’animale del cibo o costringerlo a vivere in luoghi angusti o sporchi).È quindi sufficiente aver cagionato sofferenze «di carattere ambientale, comportamentale, etologico o logistico, comunque capaci di produrre nocumento agli animali, in quanto esseri senzienti».Ciò è quanto ha ritenuto la Corte di Cassazione in relazione al discusso “caso della mucca Doris”, riguardante un bovino in precarie condizioni di salute, destinato alla macellazione ma sottoposto a inutili sevizie e vessazioni dai soggetti responsabili del trasporto al macello, ritenuti responsabili del reato di maltrattamenti perché, al fine di trascinarlo, procedevano a bastonarlo, sottoporgli scosse elettriche, calpestarlo e caricarlo a forza sulla pala di un trattore agricolo per gettarlo successivamente all’interno di un camion.Allo stesso modo, alcuni Tribunali hanno ritenuto riconducibile al reato di maltrattamenti la condotta del ristoratore che detiene animali destinati al consumo ma ancora vivi, come le aragoste, in condizioni incompatibili con la loro natura e produttive di gravi sofferenze – cioè all’interno di frigoriferi, a temperature prossime agli zero gradi centigradi, sopra un letto di ghiaccio o con le chele legate.In entrambi i casi, sembra rilevare come, nonostante l’animale che subisca i maltrattamenti sia destinato a morire ed al consumo, nel rispetto delle normative speciali e delle consuetudini sociali, comunque non possano ritenersi giustificabili le sofferenze causate precedentemente. Il reato di maltrattamenti si configura, infine, anche nel caso in cui vengano somministrate agli animali sostanze di vario tipo, comunque idonee a cagionare un danno dalla salute di questi. Si tratta del cd. “reato di doping a danno di animali”, che la legge punisce al fine di prevenire l’ulteriore ipotesi delittuosa delle scommesse clandestine o dei combattimenti tra animali, in vista dei quali spesso gli animali vengono drogati. Sia il reato di uccisione, sia quello di maltrattamenti possono essere puniti solo se compiuti con dolo, cioè con coscienza e volontà da parte dell’autore delle condotte. Non è invece punibile la condotta compiuta per colpa o per il bene dell’animale stesso.2 - Chi è il destinatario della tutela penale?I reati esaminati appartengono alla categoria dei delitti “contro il sentimento per gli animali”.L’oggetto primario di tutela veniva infatti riconosciuto, originariamente, nella sensibilità delle persone nei confronti degli animali, nel loro sentimento di pietà e affezione nei confronti di questi, che sarebbe leso dal verificarsi delle condotte incriminate.In tal senso, l’animale viene tutelato solo indirettamente, in virtù di una protezione che la legge accorda in realtà all’uomo.Progressivamente, la giurisprudenza sembra tuttavia aver riconosciuto all’animale una tutela più ampia e slegata dalla diretta riconducibilità all’uomo stesso, riconoscendolo quale vero e proprio soggetto passivo del reato.Così, ad esempio, nei casi esaminati sono state ritenute penalmente rilevanti le condotte idonee a incidere “solo” sulla stabilità e serenità psicofisica dell’animale, anche se non lesive della sensibilità umana, dandosi rilievo all’offesa agli animali e alle loro caratteristiche biologiche, più che al sentimento di umana compassione. Nella stessa direzione sembra andare il riconoscimento della tutela anche degli animali non “di affezione” e tipicamente “domestici”, come i bovini e le aragoste menzionate, peraltro destinati al macello o al consumo; nonché la pretesa dei giudici ad una rigorosa applicazione delle norme speciali che autorizzano le condotte umane lesive nei confronti degli animali (come la pesca: essa, ad esempio, non potrebbe legittimare l’imposizione agli animali usati come esca condizioni insopportabili e incompatibili con i comportamenti tipici della specie di appartenenza).3 - Quali sono le pene previste per i reati?Il reato di uccisione di animali è punito con la reclusione da quattro mesi a due anni.Quello di maltrattamenti, invece, con la reclusione da tre a diciotto mesi o con la multa da 5.000,00 a 30.000,00 euro.La pena è aumentata della metà se dai fatti di maltrattamento derivi (come conseguenza non voluta) la morte dell’animale.4 - Cosa fare in caso di uccisione o maltrattamenti di animali?Nel caso in cui si sia a conoscenza di fatti di uccisione o maltrattamenti, o si nutra un serio e fondato sospetto che questi siano in atto o si siano verificati, occorre segnalarlo alle Autorità competenti (polizia, carabinieri, ecc…) ed alle Guardie Zoofile presenti su tutto il territorio. È pure possibile consultare il loro portale online, sul sito https://www.guardiezoofile.info/segnalazione/ , che permette di segnalare il maltrattamento semplicemente compilando un apposito modulo.Il reato è, in ogni caso, procedibile d’ufficio, per cui non è necessario sporgere formale querela e in base alle segnalazioni gli organi competenti dovranno procedere con i dovuti accertamenti.Editor: dott.ssa Anna Maria Calvino
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Egregio Avvocato
13 dic. 2021 • tempo di lettura 4 minuti
Il codice penale prende in considerazione i fenomeni dell’etilismo e dell’intossicazione da stupefacenti perché, non di rado, contribuiscono alla genesi del crimine. Si tratta, invero, di una disciplina particolarmente rigorosa che importa, nella maggior parte dei casi, un inasprimento della pena.Premessa: la disciplina generale delle norme del codice penaleGli stati che importano un aggravamento del trattamento sanzionatorioGli stati che sono irrilevanti ai fini della sanzione penaleGli stati che escludono l’imputabilità1 - Premessa: la disciplina generale delle norme del codice penaleIl legislatore penale, come anticipato, ha preso in considerazione il fenomeno della commissione di reati da parte del soggetto in stato di ebbrezza o sotto l’effetto di sostanze stupefacenti.La normativa è contenuta negli artt. 91 e ss. ed è collocata nel capo dedicato alla “imputabilità”: il legislatore ritiene, infatti, che il soggetto che abbia commesso un reato possa essere dichiarato incapace di intendere e di volere – cioè non imputabile – solo in precise e tassative circostanze (del tema dell’imputabilità abbiamo parlato qui e qui).Negli altri casi, l’ubriachezza e l’intossicazione da stupefacenti o sono irrilevanti o possono comportare un amento di pena per il reato commesso.Occorre precisare, inoltre, che la disciplina che ora vedremo non si applica quando la condizione di ebbrezza o di intossicazione siano già elementi costitutivi di una fattispecie di reato autonoma, come la guida in stato di ebbrezza di cui agli artt. 186 e 186-bis del Codice della strada (per un approfondimento su questo tema, vi rimandiamo a questo articolo). Vediamo ora quali sono le tipologie di situazioni prese in considerazione dal legislatore penale..2 - Gli stati che importano un aggravamento del trattamento sanzionatorioLe condizioni che comportano un aumento di pena per il reato commesso sono l’ubriachezza (o intossicazione) preordinata e l’ubriachezza (o intossicazione) abituale. L’ubriachezza è preordinata quando è provocata al fine di commettere il reato o di prepararsi una scusa: in questa ipotesi, quindi, l’agente si ubriaca allo scopo di commettere un reato, perché magari non avrebbe il coraggio di commetterlo in condizioni di “normalità”. In questo caso, l’art. 92 co. 2 c.p. prevede che la pena per il reato commesso venga aumentata fino a 1/3. Ai sensi dell’art. 94 c.p., invece, l’ubriachezza è abituale quando il soggetto è dedito all’uso di bevande alcoliche o di sostanze stupefacenti e si ritrova frequentemente in stato di ebbrezza o di intossicazione. Anche in questo caso, in caso di condanna, la pena deve essere aumentata fino a 1/3 e può, inoltre, essere applicata la misura di sicurezza della casa di cura e di custodia o quella della libertà vigilata. 3 - Gli stati che sono irrilevanti ai fini della sanzione penaleSono irrilevanti, ai fini della sanzione penale, l’ubriachezza volontaria e l’ubriachezza colposa.In questo caso, il soggetto si ubriaca per il puro piacere di farlo o esagerando involontariamente e solo successivamente commette un reato, non programmato in anticipo al momento in cui si è posto in stato di ubriachezza. Nei confronti di questo soggetto, ai sensi dell’art. 92 co. 1 c.p. la pena non è né diminuita né aumentata: secondo il legislatore, chi si è ubriacato volontariamente o per leggerezza non può accampare scuse e, se commette un reato, deve rispondere come se fosse pienamente capace di intendere e di volere.L’art. 93 c.p. estende la medesima disciplina anche al fatto commesso sotto l’azione di sostanze stupefacenti.4 - Gli stati che escludono l’imputabilitàLe condizioni che consentono di pervenire ad una sentenza di assoluzione per incapacità di intendere e di volere sono l’ubriachezza accidentale e la cronica intossicazione da alcool o da stupefacenti.Quanto alla prima ipotesi, l’ubriachezza si dice accidentale quando è dovuta a caso fortuito o a forza maggiore e si verifica quando l’ubriachezza deriva o da un fattore del tutto imprevedibile o da una forza esterna inevitabile cui non si può opporre alcuna resistenza: in questi casi è impossibile muovere un qualsiasi rimprovero a chi abbia commesso un reato, che non è imputabile.Si tratta, per lo più, di casi di scuola: si pensi, ad esempio, all’operaio di una distilleria che si ubriachi in conseguenza di un guasto all’impianto, dopo aver passato una intera giornata in un ambiente saturo di vapori alcolici. La stessa disciplina si estende, ai sensi dell’art. 93 c.p., al caso di intossicazione accidentale da stupefacenti. Infine, l’art. 95 c.p. estende al soggetto in stato di cronica intossicazione prodotta da alcool o da sostanze stupefacenti la normativa in tema di vizio totale e parziale di mente, di cui agli artt. 88 e 89 c.p. Pertanto questa condizione, che coincide con un’alterazione patologica permanente, potrà escludere o scemare grandemente la capacità di intendere e di volere a seconda dello stato in cui l’agente si trovava al momento della commissione del fatto. Editor: dott.ssa Elena Pullano
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Egregio Avvocato
1 apr. 2021 • tempo di lettura 5 minuti
Ogni reato che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale obbliga il suo autore a risarcire il danno in favore della vittima. Ciò significa che un’unica condotta costituente reato presenta una duplice illiceità, penale e civile, che, può essere valutata unitariamente dal giudice penale: a questo scopo la persona danneggiata dal reato può costituirsi parte civile nel processo penale e ivi ottenere il risarcimento del danno, senza instaurare un separato giudizio civile.Che cos’è la costituzione di parte civile?Chi può costituirsi parte civile? Distinzione fra persona offesa e danneggiato Oggetto della richiesta: danno patrimoniale e danno non patrimonialeAlternative alla costituzione di parte civile1 - Che cos’è la costituzione di parte civile?La persona che abbia subito un danno patrimoniale o non patrimoniale in conseguenza di un reato ha diritto al risarcimento, ai sensi dell’art. 185 c.p. In particolare, il c.d. “danneggiato dal reato” è titolare di un’azione civilistica volta a conseguire, oltre all’accertamento della responsabilità penale dell’imputato per il fatto commesso, la condanna di costui al risarcimento del danno. Questa azione può essere fatta valere, alternativamente, davanti al giudice civile in un autonomo procedimento, oppure, dopo che l’azione penale sia stata esercitata dal pubblico ministero, davanti al giudice penale. In questo secondo caso, il danneggiato esercita l’azione civile costituendosi parte civile nel processo penale. L’azione risarcitoria viene esercitata mediante l’atto di costituzione di parte civile, ai sensi dell’art. 76 c.p.p. Tale atto consiste in una dichiarazione scritta che deve contenere le generalità del soggetto che si costituisce, le generalità dell’imputato nei cui confronti l’azione viene esercitata, le ragioni che giustificano la domanda (la causa petendi) nonché l’indicazione del difensore, che dovrà sottoscrivere l’atto e al quale dovrà essere conferita la procura ad litem (cioè la procura finalizzata alla rappresentanza processuale). La parte civile, infatti, sta in giudizio non personalmente, ma a mezzo del difensore, al quale, oltre alla procura ad litem può essere conferita la procura speciale, che comporta la piena rappresentanza del danneggiato nella titolarità del diritto. Solo se il danneggiato rilascia la procura speciale al suo difensore lo autorizza ad esercitare o disporre del diritto, anche in sua assenza.La costituzione di parte civile può essere presentata prima dell’udienza nella cancelleria del giudice procedente e, in questo caso, deve essere notificata alle altre parti; oppure può essere presentata durante l’udienza all’ausiliario del giudice, entro il momento in cui il giudice accerta la regolare costituzione delle parti, prima dell’apertura del dibattimento (artt. 79 e 484 c.p.p.). Dopo tale termine, la dichiarazione di costituzione di parte civile è inammissibile.Una volta ricevuta la dichiarazione di costituzione di parte civile, il giudice procedente ne valuta i presupposti sostanziali e i requisiti formali e, se ne ravvisa la mancanza, dispone, anche d’ufficio, l’esclusione della parte civile.2 - Chi può costituirsi parte civile? Distinzione fra “persona offesa” e “danneggiato” Il soggetto cui spetta il diritto di costituirsi parte civile è il “danneggiato dal reato”. Nella maggior parte dei casi la medesima persona riveste sia la qualifica di persona danneggiata dal reato sia la qualifica di “persona offesa dal reato”: con la prima espressione ci si riferisce al titolare del diritto al risarcimento del danno, mentre con la seconda locuzione si definisce il titolare dell’interesse giuridico protetto.La distinzione è particolarmente rilevante perché la persona offesa, in quanto tale, non può avanzare pretese risarcitorie che sono, invece, di esclusiva spettanza del danneggiato. A ben vedere, sono rari i casi nei quali un individuo ha solo una delle due qualifiche. Si pensi ad una rapina, nel corso della quale venga danneggiata un’auto parcheggiata nelle vicinanze: il proprietario dell’auto è il danneggiato, mentre la persona aggredita è insieme offesa e danneggiata. Se la persona danneggiata è un minore degli anni 18, la costituzione di parte civile è ammessa ma viene esercitata a mezzo dell'esercente la responsabilità genitoriale; non è mai ammissibile, invece, quando il minore sia l’imputato.Inoltre, è consolidato l’orientamento della Corte di Cassazione secondo cui può costituirsi parte civile, ai sensi dell’art. 74 c.p.p., qualsiasi soggetto al quale il reato abbia cagionato un danno: in conseguenza di ciò, “i prossimi congiunti possono legittimamente agire per il risarcimento dei danni anche solo non patrimoniali sofferti per la morte del loro familiare, indipendentemente dalla pregressa esistenza o meno di un rapporto di convivenza” (Cass. Pen., Sez. V, sent. n. 50497/2018). Sulla base del disposto di cui all’art. 307 co. 4 c.p., nella nozione di “prossimi congiunti” sono ricompresi gli ascendenti, discendenti, coniuge, parte di un’unione civile fra persone dello stesso sesso, fratelli, sorelle, affini nello stesso grado, zii e nipoti. Secondo gli orientamenti più recenti, inoltre, anche il convivente more uxorio ha diritto al risarcimento del danno morale e patrimoniale in seguito all'uccisione del proprio partner, anche in presenza di un rapporto di breve durata ma caratterizzato da serietà e stabilità (Cass. Pen., sez. III, n. 13654/2014).3 - Oggetto della richiesta: danno patrimoniale e danno non patrimonialeAi sensi dell’art. 185 c.p., il danno risarcibile a favore del danneggiato dal reato può manifestarsi nelle forme del danno patrimoniale e del danno non patrimoniale.Il danno patrimoniale consiste, ai sensi dell’art. 2056 c.c., nella privazione o diminuzione del patrimonio, nelle forme del “danno emergente” e del “lucro cessante”. Si tratta, rispettivamente, della perdita economica (es. le spese sostenute per curare le ferite) e del mancato guadagno (es. la procurata incapacità di lavorare, e quindi di guadagnare, a causa delle lesioni). Questo tipo di danno viene quantificato “per equivalente pecuniario”: l’obiettivo è ripristinare la situazione economica e patrimoniale che era preesistente e che il danneggiato avrebbe potuto proseguire, se non fosse stato commesso il reato.Il danno non patrimoniale consiste, ai sensi dell’art. 2059 c.c., nelle sofferenze fisiche e psichiche patite a causa del reato. Non può essere quantificato “per equivalente”, poiché non è possibile ripristinare la situazione anteriore al reato ma viene calcolato con modalità di tipo “satisfattivo”: il giudice, in via equitativa, determina una cifra di denaro che possa dare una soddisfazione tale da compensare le sofferenze patite.4 - Alternative alla costituzione di parte civileNel processo penale, ai sensi dell’art. 538 c.p.p., l’accoglimento della domanda risarcitoria è subordinata alla condanna dell’imputato: se quest’ultimo viene assolto, la costituita parte civile non ha diritto al risarcimento.In alternativa, il danneggiato può esercitare l’azione di danno davanti al giudice civile. In questo caso, se l’azione è esercitata in modo tempestivo, l’azione civile può svilupparsi senza subire sospensioni, parallelamente allo svolgersi del processo penale. Inoltre, una eventuale assoluzione dell’imputato nel processo penale non vincola il giudice civile né gli impedisce, qualora lo ritenga opportuno, di condannare l’imputato-convenuto al risarcimento del danno, ove siano raccolte le prove della responsabilità civile di quest’ultimo. Editor: dott.ssa Elena Pullano
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Egregio Avvocato
23 set. 2021 • tempo di lettura 11 minuti
Nell’ordinamento giuridico italiano il lavoro ricopre un ruolo centrale e preminente. Ciò si evince sin dalla norma di apertura della Carta Fondamentale, e trova poi conferma in varie disposizioni legislative, tra le quali deve annoverarsi la legge 26 luglio 1975, n. 354, recante norme sull'ordinamento penitenziario e sull'esecuzione delle misure privative e limitative della libertà. L’art. 15 o.p., invero, annovera il lavoro tra i principali elementi del trattamento rieducativo del condannato e dell'internato, in quanto costituisce uno strumento fondamentale per l’attuazione degli scopi rieducativi che il trattamento penitenziario – e più in generale la pena – dovrebbe perseguire con l’obiettivo della risocializzazione del reo (art. 27 co. 3 Cost.).L’introduzione del lavoro di pubblica utilità nell’ordinamento italiano e la sua evoluzioneLe principali applicazioniLe caratteristiche del lavoro di pubblica utilitàL’obbligatorietà nel caso di sospensione del procedimento con messa alla prova (art. 168 bis c.p.)1 - L’introduzione del lavoro di pubblica utilità nell’ordinamento italiano e la sua evoluzioneLa cornice entro cui si colloca il tema del lavoro penitenziario è quella più ampia del trattamento: l’art. 15 o.p. annovera espressamente il lavoro tra gli elementi del trattamento penitenziario, stabilendo che "ai fini del trattamento rieducativo, salvo casi di impossibilità, al condannato e all’internato è assicurato il lavoro". Per gli imputati il discorso è in parte diverso alla luce del fatto che si è in una fase processuale ove vige ancora la presunzione di non colpevolezza, e il soggetto quindi potrebbe (e dovrebbe) essere sottoposto ad un trattamento differente: il lavoro può essere svolto nei modi e nei termini tali da risultare compatibili con le esigenze giudiziarie connesse alla posizione giuridica.Elemento comune alle due categorie di reclusi (condannati e internati da un lato, e imputati dall’altro lato) è la volontarietà del lavoro, non essendo concepibile, in un’ottica trattamentale e rieducativa, alcuna ipotesi di lavoro coattivo o forzato; il trattamento volto alla rieducazione per essere genuino, deve fondarsi sulla libera e consapevole adesione degli interessati.Il lavoro penitenziario si distingue in lavoro prestato all’interno della struttura penitenziaria (ovvero nel limite del terreno demaniale di immediata prossimità) e lavoro esterno al carcere. In particolare, il lavoro di pubblica utilità, consistente nella prestazione di un’attività lavorativa svolta a beneficio della comunità, rappresenta lo strumento adeguato, da un lato, a ridurre il ricorso alla pena carceraria e, dall’altro, a offrire ai trasgressori la concreta possibilità di responsabilizzarsi e risocializzarsi. Non si tratta certamente di un istituto nuovo nel nostro sistema sanzionatorio, bensì di una misura cui il legislatore ha fatto sovente ricorso, individuandone di volta in volta una natura giuridica specifica. Già il codice penale per il Regno d’Italia del 1889 (c.d. codice Zanardelli), prevedeva il L.P.U., disciplinandolo, all'art. 19, come sanzione esecutiva sostitutiva della detenzione inflitta per il mancato pagamento della sanzione pecuniaria e, all'art. 22, come modalità esecutiva della pena dell’arresto. Entrambe le declinazioni sono rimaste inattuate, sia per il numero esiguo di reati che potevano beneficiare della misura, sia a causa della mancanza di specifica regolamentazione circa le modalità esecutive.Il codice penale del 1930 (c.d. codice Rocco), invece, non recava alcun riferimento al L.P.U.Nella storia repubblicana, l’art. 49 L. 26/7/1975 n. 354, recante Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà – poi abrogato dall'art. 110 L. 24/11/1981 n. 689 – ha aperto, per primo, alla possibilità di sostituire, in sede di conversione, alla pena detentiva derivante dal mancato pagamento di una pena pecuniaria, il lavoro da prestarsi alle dipendenze di enti pubblici.Di lì a breve, la Consulta, nel dichiarare l'illegittimità costituzionale dell'art. 136 c.p., perché lesivo del principio di eguaglianza in materia penale, invitava il legislatore ad adottare opportuni strumenti normativi, quali “ad esempio l'ammissione al lavoro libero presso enti pubblici, anche per le sole giornate o periodi festivi”.Successivamente, nel disciplinare il L.P.U., il legislatore si è ispirato al modello anglosassone del community service order, con l’obiettivo di individuare uno strumento sanzionatorio alternativo o sostitutivo della pena detentiva. La finalità precipua della sanzione del lavoro di pubblica utilità risiede nella rieducazione del condannato, riconosciuta dall’art. 27, comma 3, della Costituzione. In conformità a queste premesse, il lavoro – vera e propria occasione per il recupero di un rapporto non conflittuale con la società – è stato con il tempo elevato anche al grado di sanzione penale autonoma, principale o sostitutiva.Nell'attuale ordinamento, l’istituto ― che viene utilizzato con sempre maggior frequenza, stante il suo alto potenziale rieducativo e risocializzante ― ha assunto, anche a causa dello stratificarsi delle singole previsioni, una natura versatile, in quanto disciplinato in relazione a situazioni e finalità eterogenee.2 - Le principali applicazioniCome anticipato, il lavoro di pubblica utilità è stato dapprima introdotto dalla legge n. 689 del 1981 quale sanzione applicabile in caso di conversione della pena pecuniaria non eseguita a causa delle condizioni di insolvibilità del condannato.Successivamente, il d.l. n. 122 del 1993 ha individuato il lavoro di pubblica utilità quale pena accessoria applicabile discrezionalmente dal giudice in ipotesi di costituzione di un’organizzazione, associazione, movimento o gruppo avente tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi (articolo 3 della legge n. 654 del 1975) e di istigazione, tentativo, commissione o partecipazione a fatti di genocidio (legge n. 962 del 1967).Tuttavia, è con l'art. 54 del D.Lgs. n. 274/2000 che il lavoro di pubblica utilità acquista particolare importanza, ricoprendo il ruolo di pena principale nel micro-sistema dei reati di competenza del Giudice di pace. Ai sensi dell’art. 58 – che individua i criteri di raccordo tra il quadro sanzionatorio del giudice penale di pace e l’intero sistema penale – il L.P.U. è considerato, a tutti gli effetti giuridici, come pena detentiva della specie corrispondente a quella originaria e, ai fini del ragguaglio, 1 giorno di pena detentiva equivale a 3 giorni di L.P.U.Lo spettro di applicazione della sanzione è stato successivamente allargato a numerose e diverse fattispecie penali, che hanno configurato il lavoro di pubblica utilità come una modalità di riparazione del danno collegata all’esecuzione di diverse sanzioni e misure penali, che vengono eseguite nella comunità. Attualmente trova applicazione anche:nei casi di violazione del Codice della strada, previsti all’art. 186 comma 9-bis e art. 187 comma 8-bis del d.lgs.285/1992;nei casi di violazione della legge sugli stupefacenti, ai sensi dell’art. 73 comma 5 bis del D.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309;come obbligo dell’imputato in stato di sospensione del processo e messa alla prova, ai sensi dell’art. 168-bis del codice penale, introdotto dalla legge 28 aprile 2014 n, 67:congiuntamente alla pena dell’arresto o della reclusione domiciliare, ai sensi dell’art. 1 comma 1 lett. i) della legge 28 aprile 2014 n, 67;come obbligo del condannato ammesso alla sospensione condizionale della pena, ai sensi dell’art. 165 codice penale e art. 18-bis delle Disposizioni di coordinamento e transitorie del codice penale.3 - Le caratteristiche del lavoro di pubblica utilitàL’attività richiede un’adesione volontaria del soggetto e concerne una prestazione a carattere assistenziale da svolgere a favore di categorie sensibili come persone disabili, malati, anziani, minori, ex detenuti o extracomunitari, in ambiti relativi alla specifica professionalità del condannato o nel settore della protezione civile o della tutela del patrimonio pubblico e ambientale. Il giudice può calibrare il L.P.U. in relazione anche al tipo di reato commesso disponendo, ad esempio, attività presso istituti ospedalieri o assistenziali, per chi abbia prodotto lesioni non gravi a seguito di incidente stradale (art. 590 c.p.), o attività per la prevenzione del randagismo per chi abbia, senza necessità, ucciso o danneggiato animali (art. 638 c.p.)Il lavoro di pubblica utilità non può essere inferiore a dieci giorni né superiore a sei mesi, ma in aggiunta ai limiti edittali di durata, la prestazione di pubblica utilità ha un’intensità molto angusta, atteso che il soggetto ammesso a tale lavoro può espletarlo per non più di sei ore a settimana da svolgere con modalità e tempi che non pregiudichino le sue esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute. Tuttavia, se il condannato lo richiede, il giudice può ammettere lo svolgimento del lavoro di pubblica utilità per un tempo superiore alle sei ore settimanali, fermo restando il limite delle otto ore giornaliere della prestazione, senza stabilire un limite massimo avente efficacia assoluta ed inderogabile. La possibilità di aumentare le ore giornaliere non va interpretata nel senso di offrire uno strumento al condannato per accorciare la prestazione lavorativa, ma nel senso di offrire al condannato la possibilità di dimostrare fattivamente la sua buona volontà e di accettare l’opera rieducatrice del lavoro non retribuito, il quale è predefinito dal giudice nelle modalità e nei tempi e non soggiace all’arbitrio del condannato.La fattispecie del lavoro di pubblica utilità, come forma di attività non retribuita in favore della collettività, si regge sullo strumento della convenzione, previsto dall’art. 2, d.m. 26 marzo 2001.La convenzione è stipulata principalmente con il Ministero della Giustizia o, su delega di quest'ultimo, con il Presidente del tribunale, nell'ambito e a favore delle strutture esistenti in seno alle amministrazioni, agli enti o alle organizzazioni ammesse a beneficiare delle prestazioni di pubblica utilità. Inoltre, le convenzioni possono essere stipulate anche da amministrazioni centrali dello Stato con effetto per i rispettivi uffici periferici. Nelle convenzioni sono indicate specificamente le attività in cui può consistere il lavoro di pubblica utilità e vengono individuati i soggetti incaricati di coordinare la prestazione lavorativa del condannato e di impartire a quest'ultimo le relative istruzioni. Queste ultime, congiuntamente alle modalità di svolgimento del lavoro stabilite nella convenzione, costituiscono i fondamentali parametri di riferimento del giudice, nella formulazione del giudizio sull’adempimento o meno degli obblighi connessi.Ai sensi dell’art. 6, d.m. 26 marzo 2001, terminata l'esecuzione della pena, i soggetti incaricati devono redigere una relazione che documenti l'assolvimento degli obblighi inerenti il lavoro svolto dal condannato. Oltre alla sussistenza della convenzione, prima dell’emissione della sentenza di conversione della pena, il giudice deve acquisire la dichiarazione di disponibilità dell’ente convenzionato attraverso una richiesta esplicita.Inoltre, le convenzioni devono prevedere le modalità di copertura assicurativa del condannato contro gli infortuni e le malattie professionali, nonché quelle relative alla responsabilità civile verso i terzi, anche mediante polizze collettive, ponendo i relativi oneri a carico delle amministrazioni, delle organizzazioni o degli enti interessati.Alla normativa regolamentare, salvo che altre disposizioni di rango superiore a loro volta non lo prevedano, è stato affidato il compito di precisare l’oggetto delle prestazioni da svolgere in occasione di lavori di pubblica utilità, ispirate alla tutela dei valori fondamentali alla base della solidarietà sociale su cui si fonda il nostro assetto costituzionale e caratterizzate da una notevole ampiezza.Ovviamente, è fatto divieto che l'attività di pubblica utilità si svolga in modo tale da impedire l'esercizio dei fondamentali diritti umani o tale da ledere la dignità della persona. In omaggio al principio di parità e come riflesso del diritto alla salute, i condannati che accettino di svolgere lavoro di pubblica utilità sono ammessi a fruire del trattamento terapeutico e delle misure profilattiche e di pronto soccorso alle stesse condizioni praticate per il personale alle dipendenze delle amministrazioni, degli enti e delle organizzazioni interessati.Nel caso le circostanze del caso concreto lo richiedano, per motivi di assoluta necessità, le modalità di svolgimento della misura sostitutiva possono essere modificate in corso di esecuzione dal giudice che ha emesso la sentenza.4 - L’obbligatorietà nel caso di sospensione del procedimento con messa alla prova (art. 168 bis c.p.)L’art. 168 bis c.p. prevede una nuova causa estintiva del reato (inserita nel 2014), denominata sospensione del procedimento con messa alla prova (cd. MAP): in presenza di determinati requisiti, l’imputato chiede la sospensione del processo penale in corso e si sottopone volontariamente ad un periodo di “messa alla prova” che, ove abbia esito positivo, comporta l’estinzione del reato (per approfondire sull’istituto vedi Sospensione del procedimento con messa alla prova). La novella, prevede che, nei procedimenti ordinari per reati puniti con la pena detentiva non superiore nel massimo a 4 anni, o con la pena pecuniaria, sola, congiunta o alternativa, nonché per i delitti di competenza del tribunale in composizione monocratica a citazione diretta, l'imputato possa formulare richiesta di sospensione del processo con messa alla prova (M.A.P.), ma la concessione viene necessariamente subordinata alla prestazione del L.P.U. quale istituto trattamentale.In questi casi un ruolo fondamentale è svolto dall'UEPE (ufficio di esecuzione penale esterna), il quale ha il compito specifico di definire con l’imputato la modalità di svolgimento dell’attività riparativa, tenendo conto delle attitudini lavorative e delle esigenze personali e familiari, raccordandosi con l’Ente presso cui sarà svolta la prestazione gratuita. Il lavoro di pubblica utilità diventa così parte integrante e obbligatoria del programma di trattamento per l’esecuzione della prova che è sottoposto alla valutazione del giudice nel corso dell’udienza.Nel corso dell’esecuzione, l’UEPE cura l’attuazione del programma svolgendo gli interventi secondo le modalità previste dall’art. 72 della legge 354/1975, informa il giudice sull’adempimento degli obblighi lavorativi, sulla necessità di eventuali modifiche o inosservanze che possano determinare la revoca della prova. Dovrà infine redigere una relazione finale sull’esito della prova, sulla quale il giudice dovrà basare la propria decisione di estinguere o meno il reato. Editor: dott.ssa Claudia Cunsolo
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Egregio Avvocato
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