Egregio Avvocato
Pubblicato il 12 gen. 2022 · tempo di lettura 2 minuti
Per quando riguarda il regime giuridico, la legge prevede che i beni appartenenti alla prima categoria non possano essere alienati né formare oggetto di diritti dei terzi, salvo che nei casi e modi previsti dalla legge. Questi sono pertanto da considerare incommerciabili.
Per i beni della seconda categoria è invece ammissibile la commerciabilità, ma essi sono gravati da uno specifico vincolo di destinazione all’uso pubblico che permane anche se fossero oggetto di negozi traslativi di diritto privato.
Deve tuttavia osservarsi come questa risalente distinzione sia oggi ritenuta meramente nominalistica, anche perché le differenze di regime sono in concreto esigue, anche in punto di commerciabilità. In concreto è infatti difficile individuare dei casi in cui i beni patrimoniali indisponibili possano essere effettivamente alienati senza nuocere alla funzione pubblicistica cui sono attribuiti.
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Egregio Avvocato
17 nov. 2021 • tempo di lettura 1 minuti
Nel caso in cui un soggetto privato, sia esso persona fisica o persona giuridica privata con scopo lucrativo, sia proprietario di un bene che sia stato dichiarato come bene culturale, ha la libertà di alienarlo. Nell’ordinamento italiano, infatti, vige anche per i beni culturali il principio della libera disponibilità, secondo il quale il proprietario può liberamente disporre del bene stesso.Tuttavia, una volta che è stato concluso il contratto di alienazione tra privati, l’alienante ha l’obbligo di denuntiatio. L’art. 59 del codice dei beni culturali (d.lgs. n. 42/2004) dispone che nel caso di atti di trasferimento della proprietà o di trasferimento della detenzione dei soli beni mobili vi è l’obbligo di denuncia al Ministero. Tale denuncia deve essere fatta entro 30 giorni dal trasferimento, e la mancata denuncia comporta la commissione di un reato ex art. 173 lett. b) cod. beni culturali. In determinati casi, poi, individuati dall’art. 60, il Ministero ha la facoltà di prelazione e può quindi acquistare i beni culturali alienati al medesimo prezzo stabilito nell’atto di alienazione. Tale facoltà può essere esercitata dal Ministero entro 60 giorni da quando è stata ricevuta la denuncia, o entro 180 giorni in caso di denuncia tardiva, omessa o incompleta. In pendenza di tale termine, il contratto di alienazione è temporaneamente inefficace ed è vietata la consegna del bene.
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Egregio Avvocato
14 nov. 2021 • tempo di lettura 1 minuti
I termini “querela” e “denuncia” vengono generalmente utilizzati come sinonimi, ma è bene sapere che tale utilizzo è improprio.Mentre la denuncia può essere presentata da chiunque abbia avuto notizia di un reato, la querela può essere presentata solo dalla persona offesa del reato (quindi dalla vittima dello stesso) entro un determinato termine (generalmente 3 mesi dalla commissione del reato) ed è l’atto con il quale viene manifestata la volontà di perseguire penalmente il fatto di reato. La querela presenta un elemento in più rispetto alla denuncia: non solo la notizia di reato, ma anche la manifestazione di volontà che si proceda penalmente in ordine al medesimo.Nel caso in cui il reato sia sottoposto a condizione di procedibilità (es. reato di diffamazione), è bene assicurarsi di aver sporto la querela, poiché solo mediante quest’ultima - e non anche con una semplice denuncia - potrà avere inizio il processo penale.
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Egregio Avvocato
12 gen. 2022 • tempo di lettura 1 minuti
La nozione utilizzata dal codice penale “cause di esclusione della pena” (art. 59, co. 1 e 4, c.p.) racchiude in sé situazioni eterogenee, non riconducibili ad un principio ispiratore unitario, ma accomunate dal solo fatto che la loro sussistenza esclude la sanzione penale. All’interno delle cause di esclusione della pena possono individuarsi tre differenti categorie: le cause di giustificazione; le cause di esclusione della colpevolezza (scusanti); le cause di non punibilità in senso stretto.Le cause di giustificazione, come la legittima difesa (art. 52 c.p.), rispondono ad un’esigenza di non contraddizione: l'ordinamento giuridico non può consentire o imporre un determinato comportamento con una certa disposizione e, contestualmente, incriminarlo con un’altra disposizione. Le cause di giustificazione rendono lecito un fatto tipico nell’intero ordinamento, e, pertanto, escludono anche la responsabilità civile dell’autore del fatto.Le cause di esclusione della colpevolezza (scusanti) escludono la rimproverabilità di un soggetto per un certo fatto. Trovano il proprio fondamento nel principio di inesigibilità, secondo cui non è esigibile dal soggetto un comportamento diverso da quello tenuto a causa di determinate situazioni che incidono sul suo processo motivazionale, giocando un ruolo di pressione psichica sullo stesso. Le scusanti escludono la colpevolezza di un fatto tipico e antigiuridico.Le cause di non punibilità in senso stretto, infine, escludono la punibilità di un fatto tipico, antigiuridico e colpevole. Si fondano su una valutazione di opportunità del Legislatore che, per salvaguardare determinati contro-interessi che verrebbero lesi dall’applicazione della pena, reputa di non intervenire con la sanzione.
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Egregio Avvocato
10 nov. 2021 • tempo di lettura 2 minuti
Il reato di truffa è previsto dal codice penale all’art. 640 c.p., che punisce “Chiunque, con artifizi o raggiri, inducendo taluno in errore, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno”. È un reato di evento e a forma vincolata, ciò vuol dire che per potersi applicare la sanzione penale, da un lato, devono verificarsi gli eventi che sono presi in considerazione dalla legge penale (in particolare, l’induzione in errore e il danno); dall’altro lato, che non qualsiasi condotta è rilevante, ma solo quella che costituisce i cd. artifizi e raggiri.Ma cosa succede se una parte non fornisce all’altra determinate informazioni che sono particolarmente rilevanti per la conclusione dell’affare? Si può configurare truffa per omissione? Possono rilevare questi comportamenti omissivi sotto forma di artifizi e raggiri?Secondo la dottrina largamente prevalente la risposta è negativa: non si può dare rilevanza alla truffa per omissione, nemmeno quando la legge esplicitamente o implicitamente impone a una parte di fornire all’altra certe informazioni. Questo perché il 640 c.p. parlando di artifizi e raggiri che hanno causato l’errore, logicamente fa riferimento a comportamenti commissivi. Non si può nemmeno invocare l’art. 40 co. 2 c.p., perché questa disposizione si può innestare solo nei reati a forma libera, mentre il reato di truffa è un reato a forma vincolata. Infine, la dottrina evidenzia anche che quando il legislatore ha inteso dare rilevanza a certe condotte omissive, lo ha fatto espressamente (come ad es. nel caso dell’art. 316 ter c.p.)Invece, la giurisprudenza oggi punisce la truffa per omissione, soprattutto quando la legge imponeva a quel soggetto di dare quella determinata informazione, che invece non viene data. In questi casi la giurisprudenza o applica direttamente con l’art. 640, oppure punisce mediante l’innesto dell’art. 40 co. 2 c.p. Per giustificare questa lettura, viene preso in considerazione il dovere di buona fede e di solidarietà: si dice che è particolarmente sentita l’esigenza di punire le condotte che vanno a ledere il bene giuridico del patrimonio e della libertà di autodeterminazione, per cui sarebbe ingiusto e iniquo non dare rilevanza a queste condotte per omissione. Studiando questi casi, una parte della dottrina in tono critico dice che la giurisprudenza di fatto sta trasformando la truffa in un reato a forma libera: se si estende a dismisura il concetto di artifizi e raggiri, comprendendo anche queste condotte omissive, è ovvio che vai contro la volontà del legislatore.
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